sabato 13 agosto 2016

Il Doping dello sport ed il “non doping” della morale - di Federica Frasconi

Il Doping dello sport ed il “non doping” della morale


In questi giorni di Olimpiadi a Rio, abbiamo assistito alla squalifica di Alex Schwazer per doping: una squalifica di 8 anni che in tempi reali equivale, nella maggior parte dei casi, alla fine della sua carriera. Il caso di Schwazer è un caso diverso da molti altri ma in sé ha una denuncia della realtà molto più spinosa. Ora, con questo non si vuole dire che nello sport debba esserci il doping per gareggiare tra chi se lo somministra meglio, semmai si vuole aprire uno squarcio di realtà in quel mondo idealizzato e motore di ideologie e squadre di tifo tra i presidenti degli stati in gara.

Ogni sport ha in sé livelli di difficoltà elevati e diversi, essendo gli atleti tutti a livello agonistico: le questioni sono molto delicate; o si cambiano le regole e la mole di sforzo o si accetta l’evidenza. Non credo che quelle atlete o quegli atleti siano in se super eroi ma credo invece che siano giovani talenti indiscutibili che nella loro resistenza seppur elevata non riescono a sopportare un carico cosi pesante.
Il mondo del ciclismo, a mio avviso, è il più complicato in quanto gli atleti percorrono chilometri e chilometri in salita sotto ogni condizione climatica per molti giorni e molte ore di seguito; come si può anche solo credere che la maggior parte gareggi pulita in simili circostanze?

Un conto è non volere vedere la realtà un conto è vederla e metterla al silenzio di poteri molto più influenti dei semplici circoli sportivi. Se il doping è uno specifico trattamento medico per alleviare la fatica, il così detto “non doping” è allo stesso modo uno strumento medico per alleviare fatica e dolore.
Le case farmaceutiche sono un punto focale in questa vicenda e con loro tutto il clima di negazione ed esaltazione di realtà impossibili da raggiungere in condizioni di normale attività fisica. 

Mi torna in mente il mito di Bartali e Coppi e il famoso gesto della borraccia.
Al tempo nessuno comprese, o volle comprendere, il simbolismo nascosto in quel gesto: più che due atleti che si scambiavano la borraccia c’erano due poteri che si scambiavano favori, quello della democrazia cristiana e del partito comunista. Oggi chi ci assicura che in quella borraccia come in tante altre borracce, nella storia sportiva, non ci sia stata, oltre il controllo del potere, qualche sostanza di aiuto?

Alex Schwazer mi fa pesare a Marco Pantani ed a quanto lui stesso fosse stato distrutto dal potere, sia dal potere dello spettacolo che da quello della politica del tempo. Due atleti che hanno scontato sulle loro spalle le presunte colpe di altri intoccabili (seppur atleti): altri che continuano a non essere in regola con la morale sportiva e che gareggiano lo stesso, magari con un trattamento diverso rispetto a quello del riconosciuto e combattuto doping.
Un aiuto farmaceutico deve essere garantito a certi livelli per tutti gli atleti o altrimenti prendete in considerazione la realtà e non i miti; molti atleti muoiono giovani proprio perché esagerano nel raggiungimento di quell’ideale eroico e imponente che tanto mettete in scena e si sono massacrati magari dosando da soli quantità aberranti di medicinali ammessi e taciuti alle gare.

Lo sport è una gara prima di tutto con se stessi: rendetela tale e non un calvario di onori.
Vorrei parlare anche di Simone Biles atleta di talento indiscussa. Il suo corpo marmoreo, la sua capacità di spettacolo ha in sé un veicolo fondamentale quale è il talento. Un corpo femminile o per meglio dire… una donna è donna anche se ama avere e curare un corpo scultoreo anzi, nella sua arte, l’atleta ha in se una dolcezza decisa felice e libera come anche le altre atlete hanno a modo loro. Paragonare il suo fisco a quello delle cinesi o coreane leggiadro dolce e bello, od a quello delle russe o alle altre stesse atlete statunitensi mi sembra un modo poco serio di intendere la gara sportiva e tantomeno l’analisi della competizione. Sicuramente tra loro le atlete hanno un fisico diverso e non è un caso che in sport come la vela, atlete più leggere riescano ad arrivare nei primi posti: questo non è detto perché il punto focale è il talento prima della struttura fisica. Se le atlete cinesi o russe avessero avuto lo stesso talento di Simone Biles sarebbero arrivate prime. Un corpo di donna atletico ed in certi tratti rasente alla potenza del fisico maschile, non ha niente di così dispregiativo, anzi è un fisico che parla di uno spirito libero che probabilmente ama quel suo essere atleta cosi come si mostra; non definirei Simone Biles un baraccone, anzi definirei Simone Biles come una donna che nel suo modo ha dato libertà sessuale all’espressione artistica ed inoltre i baracconi come il circo non sono mondi degradati…

Se iniziassimo tutti a rispettare l’arte in base al fatto che è arte e non al luogo di reggenza che la ospita, forze tanti capogiri non ci sarebbero; ma così non è per questo siamo esistiti anche noi omosessuali con il nome di capovolti un tempo, ed oggi ancora,  a fatica, ognuno di noi, atleta quotidiano, cerca con la dolcezza e la giusta dose di amarezza di continuare la battaglia per la piena uguaglianza e per la cultura del vero e del reale che in se hanno anche l’arte: l’arte che non è maschera del potere o dei miti che il potere vorrebbe imporre.

L’uguaglianza parte anche da qui e non è un caso che atlete come Simone Biles siano attaccate solo perché talentuose ed anche di buona presenza scenica; i binomi, bellezza e intelligenza, omosessualità e purezza non sono poi così impossibili e se non vogliamo vederli ne accettarli, dovremmo chiederci il perché:
da cosa fuggiamo, perché due qualità non possono e non devono coesistere ancor meno se riconosciute a livello mondiale in un evento sportivo quale le olimpiadi ove lo sport è lo strumento sociale ed educativo del rapporto con se ed i propri limiti?
Forse perché lo sport fino ad oggi era, si, rappresentato come una sfida con se stessi ma non lo è mai stato nella realtà interna e mostrata. Forse dovremmo non avere paura di vedere la bellezza talentuosa o la donna apparentemente mascolina essere femminile e talentuosa o forse dovremmo avere paura: forse si dovremmo avere paura della realtà, se però la paura è un modo per arrivare all’accettazione della realtà e non sia l’ennesima fucina di stereotipi rinforzati e di reggenza elogiati.

Federica Frasconi


A tutti gli atleti quotidiani di ogni ambito

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