venerdì 26 aprile 2013

Sprecopoli: una holding di partecipazioni in Umbria. Radicaliperugia.org pubblica integralmente per la prima volta online il dossier curato da Carlo Ripa di Meana nel 2004 che censiva 298 organisimi di nomina regionale. Nulla è cambiato da allora

In un corposo dossier sul sottogoverno in Umbria dal titolo "Sprecopoli" curato da Carlo Ripa di Meana e pubblicato nell'aprile 2004, prima cioè che il tema dei costi della "casta" monopolizzasse il dibattito politico, venivano censiti ben 298 organismi di nomina regionale. Una pletora di società, molte delle quali inutili, di cui spesso si ignorano funzioni e finalità. Non tutte le cariche, va detto, di questi enti, sono retribuite, altre invece sì e profumatamente. - Nel dossier - che a distanza di 9 anni mantiene tutta la sua attualità - Ripa di Meana sottolinea che "E' sufficiente scorrere l'elenco dei centri, comitati, osservatori, commissioni - dice Ripa di Meana - per capire che questo enorme Caravanserraglio, privo il più delle volte di ogni logica funzionalità, si è esteso e perpetuato nel tempo, nove volte su dieci, in primo luogo nella tecnica che produce nomine, incarichi, piccole e medie retribuzioni, in una accattivante applicazione del "Estad todos Caballeros" (siete tutti cavalieri) di Carlo V. "
Altre informazioni: "Una holding di partecipazioni", La Voce Nuova, 6 ottobre 2007.
Qui sotto si può scaricare il file.

dossier sprecopoli.pdf

domenica 14 aprile 2013

Garante delle persone detenute: il 17 aprile il Consiglio regionale dell'Umbria ha l'occasione di rientrare nella legalità. Comunicato di Radicaliperugia.org e Liberaumbria


Il prossimo 17 aprile, all’Ordine del giorno del Consiglio regionale è stata inserita la nomina del garante dei diritti dei detenuti.
Finalmente!!!
La legge regionale, che istituisce una figura di tutela delle persone private della libertà personale, fu pubblicata, infatti, nell’ottobre del 2006, più di sei anni fa, e prescriveva la designazione entro un anno.
Da allora è cresciuta notevolmente la popolazione carceraria con problemi assai gravi di sovraffollamento, che talora comportano vere e proprie violazioni di diritti costituzionalmente garantiti. La nomina di un garante, in grado di vigilare, di ascoltare – quando si presenti – il disagio, di spingere a soluzioni positive dei problemi tutte le amministrazioni coinvolte, dal Ministero della Giustizia alla Sanità regionale, agli Enti Locali, non è la panacea, ma un aiuto concreto, un segno di attenzione e di civiltà da parte della comunità regionale.
Libera Umbria, i Radicali di Perugia ed altre associazioni, fin dalla precedente legislatura, hanno sollecitato il Consiglio regionale con convegni, incontri, conferenze e comunicati stampa, a rientrare nella legalità provvedendo alla nomina, ma solo qualche mese fa abbiamo ottenuto un primo risultato: l’apertura di un bando pubblico per la scelta del garante. Si è avviata così una procedura di selezione trasparente, basata sui curricula dei candidati in possesso dei requisiti di legge.
Ora il Consiglio regionale potrà procedere ad una pubblica valutazione e ad una scelta meditata.
Noi ci aspettiamo che la persona selezionata, per competenza giuridica, impegno civile ed esperienza, goda di generale fiducia. Una figura di tutela deve, peraltro, dare garanzia di assoluta indipendenza rispetto al mondo della politica, della giurisdizione e dell’amministrazione carceraria.
Bisogna che il Consiglio regionale faccia presto ma anche bene.
Le nostre associazioni saranno presenti con una delegazione per dimostrare attenzione e sostegno.

per Libera Umbria                                                                                          per RadicaliPerugia.org
(Walter Cardinali)                                                                                           Andrea Maori

martedì 2 aprile 2013

Diritti civili eversivi. La giustificata paura del regime per i processi di liberazione di un paese a basso tasso di laicità


Recensione pubblicata oggi, due aprile, su Notizie Radicali 
Dossier Libertà controllata. Polizia, potere politico e movimenti per i diritti umani e civili (1945-2000) , Reality book, Roma 2012, di Andrea Maori.
Gerardo Nicolosi
Sino a dove può spingersi un sistema liberaldemocratico per proteggere se stesso? Sino a dove può spingersi un sistema liberaldemocratico sulla strada della libertà contro i nemici della libertà? E quindi sino a quale livello la libertà può essere “controllata” senza che il sistema rinneghi la sua stessa natura? E ancora: guardando al livello del controllo della libertà che storicamente ha contraddistinto il sistema politico italiano nel periodo repubblicano è possibile definirlo un sistema liberale? Sono questi gli interrogativi di fondo che ispirano la lettura dell'ultimo libro di Andrea Maori, Dossier Libertà controllata. Polizia, potere politico e movimenti per i diritti umani e civili (1945-2000)  Reality book, Roma 2012, già autore di un corposo volume dedicato alla vigilanza sui partiti politici.
La documentazione portata alla luce in quest'ultimo libro ci permette di avere una idea abbastanza fedele della società italiana negli anni in questione e della sua trasformazione in rapporto al sistema politico. I rapporti di polizia relativi agli anni Cinquanta e Sessanta sono veramente indicativi  dell'Italia di prima della “scomparsa delle lucciole”, per usare una espressione di Pasolini, una società in cui parlare di divorzio, di aborto, di libertà della donna, di libertà religiosa, di protezione dei detenuti, di omosessualità, non era facile. Un contesto sociale in cui sono soltanto alcune minoranze che rivendicano obiettivi di lotta per un avanzamento sul piano dei diritti umani e civili. Il libro è molto eloquente in proposito: Associazione italiana per la libertà della cultura (1957), Associazione per la libertà religiosa (1957),  i vari movimenti italiani a favore del divorzio, di cui c'è traccia a partire dal 1946 fino alla nascita della LID negli anni Sessanta, i vari movimenti non violenti a partire dagli anni Cinquanta e così via dicendo. Si tratta di minoranze, a volte anche estreme, costrette a fare comizi in piazze deserte, popolate da pochissimi militanti, una  realtà che suscita un altro interrogativo: ma i partiti di massa dove erano? I grandi partiti capaci di mobilitare le masse, milioni di militanti pronti a scendere in piazza ad un solo minimo cenno del leader del partito o del sindacato, capaci di condizionare la politica dei governi, dove erano? Mi sembra molto indicativo quanto è scritto a proposito di ciò che avvenne a Siena in piena campagna per il divorzio. Pochi mesi dopo l'approvazione della legge Baslini-Fortuna, nella città toscana si svolse un comizio tenuto da Mauro Mellini per protestare contro una lettera pastorale dell'Arcivescovo di Siena che aveva condannato la legge, una manifestazione alla quale parteciparono circa 300 persone provenienti da Roma, ma in occasione della quale il solerte funzionario di polizia scrive, non sappiamo quanto effettivamente compiaciuto, che era «completamente assente la cittadinanza senese tranne qualche curioso» (pag. 77). Una manifestazione alla quale seguì una dura critica di Marco Pannella nei confronti dell'allora sindaco di Siena (Barzanti, PSIUP) il quale non aveva dato appoggio all'iniziativa. In una delle province più rosse d'Italia, si registrava una presa di posizione della Curia vescovile contro la legge Baslini-Fortuna – da parte sua  comprensibile, sebbene si trattasse di legge dello stato - ma alla quale faceva seguito una presa di posizione del Tribunale di Siena che chiedeva il pronunciamento della Corte costituzionale sull'art. 2 della legge stessa. Un asse tra potere ecclesiastico e potere giudiziario nei confronti del quale il potere politico locale rimane assolutamente acquiescente. Ciò che è indice di quanto sia stato ambiguo, temporeggiatore, bifronte l'atteggiamento della sinistra storica di quegli anni, molto cauta nel trasmettere soprattutto nelle periferie l'imput di un concreto appoggio alla campagna pro-divorzio per paura di alienarsi le masse cattoliche, questo antico mito togliattiano di fronte al quale bisogna dire che anche i comunisti delle generazioni future si sono più volte passivamente genuflessi.
La documentazione enucleata da Maori è in questo caso molto eloquente, come nel caso di quell'informatore di Cuneo il quale appunto aveva scritto sul proprio rapporto che l'atteggiamento del PCI era dettato dalla volontà di evitare una frattura tra laici e cattolici e registrava come in occasione di una manifestazione pubblica un oratore comunista aveva detto espressamemte che il PCI non voleva compiere «salti nel buio» per un problema come quello del divorzio che non presentava carattere di «priorità» (p. 81).
Alla luce di episodi come quelli appena citati e quindi alla luce di  questa “anomalia” che riguarda una cronica mancanza di cultura laica, cioè di cultura liberale in senso lato, la mia domanda ulteriore è questa: i grandi partiti di massa hanno in misura determinante contribuito all'avanzamento del Paese sul piano dei diritti umani e civili? O piuttosto non hanno pesato come una “cappa” su masse di elettori più direttamente preoccupati – e lo dico senza alcun intento di condanna – di più egoistici e prosaici obiettivi? 
Altra considerazione che è strettamente correlata a quanto sopra: il libro di Maori permette di disegnare una mappa abbastanza accurata dei movimenti per i diritti umani e civili sorti a partire dal dopoguerra. La documentazione rende conto di gruppi abbastanza esigui, come detto sopra, ma molto numerosi, in svariati settori, coprendo in pratica uno spazio d'azione di cui i partiti tradizionali si disinteressano del tutto. Ai partiti tradizionali ad un certo punto sfugge il grande cambiamento che la società compie tra gli anni Sessanta e Settanta, che non è più l'Italia del “tempo delle lucciole”, che su grandi temi come il divorzio compie uno strappo nei confronti dei punti di riferimento tradizionali. In questo senso, la società è più avanti dei partiti e la vittoria referendaria sul divorzio lo dimostrerà.  E questo perchè i grandi partiti di massa si preoccupano da allora unicamente di foraggiare il proprio elettorato con ogni tipo di prebende e autoassistono compiaciuti alla loro crescita pachidermica a spese dello Stato. Sono come quegli elefanti che stanno tutto il giorno a foraggiarsi ed grattarsi la schiena con la proboscide.
Il pullulare dei movimenti degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta non è altro che un segno evidente della crisi del partito tradizionale come strumento di lotta politica, al quale sfugge la domanda proveniente dalla società nelle sue più svariate sfaccettature e che non riesce più a dare risposte soddisfacenti. Cioè offre soltanto risposte che possono essere in qualche modo funzionali alla sua crescita, ma non alla crescita del Paese.
L'ultimo aspetto che volevo mettere in luce è quello del grado di controllo, che ci riporta agli interrogativi di partenza, e riguardo al quale mi sembra che ci siano pochi dubbi. In Italia, nei primi decenni della Repubblica permangono evidenti retaggi del periodo fascista. Innanzitutto, ciò è diretta conseguenza del fatto che sul piano legislativo continua a rimanere in vita la normativa emanata durante il ventennio, ciò di cui il libro ci dà testimonianza. Come nel caso della legge Buffarini Guidi del 1935 che vietava l'esercizio del culto per le associazioni pentecostali sulla base del presupposto che esse svolgessero attività nociva «all'integrità fisica e psichica della razza» - qualcosa di aberrante! - e che continua a produrre effetti anche dopo varie sentenze della Cassazione, addirittura sino a metà degli anni Sessanta. O come l'art. 553 del codice penale che vietava la propaganda e l'uso di qualsiasi mezzo contraccettivo, pena un anno di reclusione (soltanto nel 1971 la Corte Costituzionale riconosceva la liceità della propaganda anticoncezionale come elemento della tutela della salute e della maternità).
Ma anche laddove c'è una svolta sul piano giuridico, i retaggi del regime continuano a produrre effetti, perchè anche al di là della normativa esistente ed anche al di là della garanzia costituzionale, quello che ha davvero contato è stata la permanenza di una cultura istituzionale illiberale. Come è già stato osservato dalla migliore storiografia amministrativa, in Italia è avvenuto questo: così come nel primo decennio del regime fascista i funzionari dello stato continuavano a risentire nella loro attività quotidiana della loro formazione liberale, ciò che, a guardar bene, ha evitato in molti casi danni maggiori, nei primi decenni della Repubblica la Pubblica Amministrazione italiana è caratterizzata dalla presenza di funzionari che nella loro attività quotidiana hanno sicuramente fatto tesoro di una formazione fascista. Degli effetti di questa stortura, il libro di Maori ci rende ampia testimonianza proprio in merito al controllo politico da parte del Ministro dell'Interno sul movimentismo per i diritti umani e civili, almeno per quello che riguarda i primi decenni repubblicani.
Sono in leggero dissenso con la ratio del libro soltanto riguardo ad uno degli ambiti di azione contemplati da Maori e cioè quello dell'antimilitarismo. Non vorrei essere frainteso: non dico che non dovesse essere riconosciuto il diritto di professarsi pacifista e che non ci dovesse essere un riconoscimento dell'obiezione di coscienza. Ma bisogna tener presente che negli anni in questione l'Italia non sfugge alle logiche di un contesto internazionale caratterizzato dalla contrapposizione tra due blocchi, dove l'appartenenza all'uno o all'altro dei mondi contrapposti implicava anche una ben precisa fedeltà militare. Il fatto che il ministero dell'Interno o quello della Difesa esercitino un controllo sul fronte del pacifismo e dell'antimilitarismo mi sembra plausibile, soprattutto nel paese in cui prospera il più forte Partito Comunista dell'Occidente. E non è un caso che nella documentazione enucleata da Maori si ritrovi traccia di quei “partigiani della pace” che sono un movimento in merito al quale la recente storiografia ha appurato un legame diretto con il Cominform. Norberto Bobbio scrisse nel 1952: «Curiosi pacieri i partigiani della pace. Essi si offrono per ristabilire la pace tra i contendenti. Ma dichiarano sin dall’inizio senza alcuna reticenza che dei due contendenti l’uno ha ragione a l’altro ha torto, che la pace si può salvare soltanto mettendosi da una parte sola». Così come non è un caso che i funzionari di polizia rilevino in seno al movimento la presenza di componenti che addirittura erano contrari agli obiettori di coscienza perchè aspiravano alla formazione di un «contro-esercito rivoluzionario» nelle forze armate. É il 1974 e sono gli anni di piombo.
Tentando quindi di dare una risposta ai nostri interrogativi di partenza, sosteniamo in conclusione che per un sistema liberaldemocratico un livello di controllo è sempre fisiologico, per la sua stessa sopravvivenza. In Italia, alcuni fattori hanno condizionato sia il livello che le modalità di esercizio del controllo, in qualche caso mettendo in crisi la natura liberaldemocratica del sistema. Tali fattori sono: la persistenza di una normativa risalente agli anni del regime fascista, la persistenza di una cultura istituzionale formatasi durante il regime, la presenza di attori della politica, cioè di partiti a destra e a sinistra del sistema politico, sui quali soprattutto per i primi decenni di vita della Repubblica era plausibile che le istituzioni dubitassero della loro lealtà democratica. Per i loro legami diretti con sistemi non democratici, come il PCI, o perchè si richiamavano ad esperienze non democratiche, come il MSI, ciò che faceva salire il livello di guardia. In particolare nel campo dei diritti civili e umani, un fattore determinante fu la presenza di un partito di maggioranza relativa, la DC, non insensibile alle sollecitazione del Vaticano, istituzione che non ha mai esitato a far sentire la sua voce anche contro le leggi dello Stato italiano. Non bisogna dimenticare che il ministero dell'Interno fu un “feudo” democristiano ininterrottamente dal 1948 al 1994, fino al primo governo Berlusconi, quando al Viminale arrivò Maroni. Nemmeno capi di governo laici come Spadolini (che ebbe Rognoni agli Interni) o Craxi (che ebbe Scalfaro) o Amato (che ebbe Mancino) riuscirono a strappare alla DC questo ministero chiave per la vita del Paese.
Non vorrei essere stato troppo severo nei confronti dei partiti di massa, che certamente ebbero i loro meriti: sarebbe ingiusto non riconoscere che l'Italia di oggi non è più quella del “tempo delle lucciole”, sarebbe ingiusto non riconoscere che essa ha compiuto un grande balzo in avanti sulla strada dell'emancipazione civile, ma se ciò è vero, è stato anche per quei movimenti per i diritti umani e civili e per quelle minoranze attive di cui ci parla il libro di Maori. E tutto ciò, nonostante il controllo.