Sino a
dove può spingersi un sistema liberaldemocratico per proteggere se stesso? Sino
a dove può spingersi un sistema liberaldemocratico sulla strada della libertà
contro i nemici della libertà? E quindi sino a quale livello la libertà può
essere “controllata” senza che il sistema rinneghi la sua stessa natura? E
ancora: guardando al livello del controllo della libertà che storicamente ha
contraddistinto il sistema politico italiano nel periodo repubblicano è
possibile definirlo un sistema liberale? Sono questi gli interrogativi di fondo
che ispirano la lettura dell'ultimo libro di Andrea Maori, Dossier Libertà
controllata. Polizia, potere politico e movimenti per i diritti umani e civili
(1945-2000) Reality book, Roma
2012, già autore di un corposo volume dedicato alla vigilanza sui partiti
politici.
La
documentazione portata alla luce in quest'ultimo libro ci permette di avere una
idea abbastanza fedele della società italiana negli anni in questione e della
sua trasformazione in rapporto al sistema politico. I rapporti di polizia
relativi agli anni Cinquanta e Sessanta sono veramente indicativi dell'Italia di prima della “scomparsa delle
lucciole”, per usare una espressione di Pasolini, una società in cui parlare di
divorzio, di aborto, di libertà della donna, di libertà religiosa, di
protezione dei detenuti, di omosessualità, non era facile. Un contesto sociale
in cui sono soltanto alcune minoranze che rivendicano obiettivi di lotta per un
avanzamento sul piano dei diritti umani e civili. Il libro è molto eloquente in
proposito: Associazione italiana per la libertà della cultura (1957), Associazione
per la libertà religiosa (1957), i vari
movimenti italiani a favore del divorzio, di cui c'è traccia a partire dal 1946
fino alla nascita della LID negli anni Sessanta, i vari movimenti non violenti
a partire dagli anni Cinquanta e così via dicendo. Si tratta di minoranze, a
volte anche estreme, costrette a fare comizi in piazze deserte, popolate da
pochissimi militanti, una realtà che
suscita un altro interrogativo: ma i partiti di massa dove erano? I grandi
partiti capaci di mobilitare le masse, milioni di militanti pronti a scendere
in piazza ad un solo minimo cenno del leader del partito o del sindacato,
capaci di condizionare la politica dei governi, dove erano? Mi sembra molto
indicativo quanto è scritto a proposito di ciò che avvenne a Siena in piena
campagna per il divorzio. Pochi mesi dopo l'approvazione della legge
Baslini-Fortuna, nella città toscana si svolse un comizio tenuto da Mauro
Mellini per protestare contro una lettera pastorale dell'Arcivescovo di Siena
che aveva condannato la legge, una manifestazione alla quale parteciparono
circa 300 persone provenienti da Roma, ma in occasione della quale il solerte
funzionario di polizia scrive, non sappiamo quanto effettivamente compiaciuto,
che era «completamente assente la cittadinanza senese tranne qualche curioso»
(pag. 77). Una manifestazione alla quale seguì una dura critica di Marco
Pannella nei confronti dell'allora sindaco di Siena (Barzanti, PSIUP) il quale
non aveva dato appoggio all'iniziativa. In una delle province più rosse d'Italia,
si registrava una presa di posizione della Curia vescovile contro la legge
Baslini-Fortuna – da parte sua
comprensibile, sebbene si trattasse di legge dello stato - ma alla quale
faceva seguito una presa di posizione del Tribunale di Siena che chiedeva il
pronunciamento della Corte costituzionale sull'art. 2 della legge stessa. Un
asse tra potere ecclesiastico e potere giudiziario nei confronti del quale il
potere politico locale rimane assolutamente acquiescente. Ciò che è indice di
quanto sia stato ambiguo, temporeggiatore, bifronte l'atteggiamento della
sinistra storica di quegli anni, molto cauta nel trasmettere soprattutto nelle
periferie l'imput di un concreto appoggio alla campagna pro-divorzio per paura
di alienarsi le masse cattoliche, questo antico mito togliattiano di fronte al
quale bisogna dire che anche i comunisti delle generazioni future si sono più
volte passivamente genuflessi.
La
documentazione enucleata da Maori è in questo caso molto eloquente, come nel
caso di quell'informatore di Cuneo il quale appunto aveva scritto sul proprio
rapporto che l'atteggiamento del PCI era dettato dalla volontà di evitare una
frattura tra laici e cattolici e registrava come in occasione di una
manifestazione pubblica un oratore comunista aveva detto espressamemte che il
PCI non voleva compiere «salti nel buio» per un problema come quello del
divorzio che non presentava carattere di «priorità» (p. 81).
Alla
luce di episodi come quelli appena citati e quindi alla luce di questa “anomalia” che riguarda una cronica
mancanza di cultura laica, cioè di cultura liberale in senso lato, la mia
domanda ulteriore è questa: i grandi partiti di massa hanno in misura
determinante contribuito all'avanzamento del Paese sul piano dei diritti umani
e civili? O piuttosto non hanno pesato come una “cappa” su masse di elettori
più direttamente preoccupati – e lo dico senza alcun intento di condanna – di
più egoistici e prosaici obiettivi?
Altra
considerazione che è strettamente correlata a quanto sopra: il libro di Maori
permette di disegnare una mappa abbastanza accurata dei movimenti per i diritti
umani e civili sorti a partire dal dopoguerra. La documentazione rende conto di
gruppi abbastanza esigui, come detto sopra, ma molto numerosi, in svariati
settori, coprendo in pratica uno spazio d'azione di cui i partiti tradizionali
si disinteressano del tutto. Ai partiti tradizionali ad un certo punto sfugge
il grande cambiamento che la società compie tra gli anni Sessanta e Settanta,
che non è più l'Italia del “tempo delle lucciole”, che su grandi temi come il
divorzio compie uno strappo nei confronti dei punti di riferimento
tradizionali. In questo senso, la società è più avanti dei partiti e la
vittoria referendaria sul divorzio lo dimostrerà. E questo perchè i grandi partiti di massa si
preoccupano da allora unicamente di foraggiare il proprio elettorato con ogni
tipo di prebende e autoassistono compiaciuti alla loro crescita pachidermica a
spese dello Stato. Sono come quegli elefanti che stanno tutto il giorno a
foraggiarsi ed grattarsi la schiena con la proboscide.
Il
pullulare dei movimenti degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta non è altro
che un segno evidente della crisi del partito tradizionale come strumento di
lotta politica, al quale sfugge la domanda proveniente dalla società nelle sue
più svariate sfaccettature e che non riesce più a dare risposte soddisfacenti.
Cioè offre soltanto risposte che possono essere in qualche modo funzionali alla
sua crescita, ma non alla crescita del Paese.
L'ultimo
aspetto che volevo mettere in luce è quello del grado di controllo, che ci
riporta agli interrogativi di partenza, e riguardo al quale mi sembra che ci
siano pochi dubbi. In Italia, nei primi decenni della Repubblica permangono
evidenti retaggi del periodo fascista. Innanzitutto, ciò è diretta conseguenza
del fatto che sul piano legislativo continua a rimanere in vita la normativa
emanata durante il ventennio, ciò di cui il libro ci dà testimonianza. Come nel
caso della legge Buffarini Guidi del 1935 che vietava l'esercizio del culto per
le associazioni pentecostali sulla base del presupposto che esse svolgessero
attività nociva «all'integrità fisica e psichica della razza» - qualcosa di
aberrante! - e che continua a produrre effetti anche dopo varie sentenze della
Cassazione, addirittura sino a metà degli anni Sessanta. O come l'art. 553 del
codice penale che vietava la propaganda e l'uso di qualsiasi mezzo
contraccettivo, pena un anno di reclusione (soltanto nel 1971 la Corte
Costituzionale riconosceva la liceità della propaganda anticoncezionale come
elemento della tutela della salute e della maternità).
Ma
anche laddove c'è una svolta sul piano giuridico, i retaggi del regime
continuano a produrre effetti, perchè anche al di là della normativa esistente
ed anche al di là della garanzia costituzionale, quello che ha davvero contato
è stata la permanenza di una cultura istituzionale illiberale. Come è già stato
osservato dalla migliore storiografia amministrativa, in Italia è avvenuto
questo: così come nel primo decennio del regime fascista i funzionari dello
stato continuavano a risentire nella loro attività quotidiana della loro
formazione liberale, ciò che, a guardar bene, ha evitato in molti casi danni
maggiori, nei primi decenni della Repubblica la Pubblica Amministrazione
italiana è caratterizzata dalla presenza di funzionari che nella loro attività
quotidiana hanno sicuramente fatto tesoro di una formazione fascista. Degli
effetti di questa stortura, il libro di Maori ci rende ampia testimonianza
proprio in merito al controllo politico da parte del Ministro dell'Interno sul
movimentismo per i diritti umani e civili, almeno per quello che riguarda i
primi decenni repubblicani.
Sono
in leggero dissenso con la ratio del libro soltanto riguardo ad uno
degli ambiti di azione contemplati da Maori e cioè quello dell'antimilitarismo.
Non vorrei essere frainteso: non dico che non dovesse essere riconosciuto il
diritto di professarsi pacifista e che non ci dovesse essere un riconoscimento
dell'obiezione di coscienza. Ma bisogna tener presente che negli anni in
questione l'Italia non sfugge alle logiche di un contesto internazionale
caratterizzato dalla contrapposizione tra due blocchi, dove l'appartenenza
all'uno o all'altro dei mondi contrapposti implicava anche una ben precisa fedeltà
militare. Il fatto che il ministero dell'Interno o quello della Difesa
esercitino un controllo sul fronte del pacifismo e dell'antimilitarismo mi
sembra plausibile, soprattutto nel paese in cui prospera il più forte Partito
Comunista dell'Occidente. E non è un caso che nella documentazione enucleata da
Maori si ritrovi traccia di quei “partigiani della pace” che sono un movimento
in merito al quale la recente storiografia ha appurato un legame diretto con il
Cominform. Norberto Bobbio scrisse nel 1952: «Curiosi pacieri i partigiani
della pace. Essi si offrono per ristabilire la pace tra i contendenti. Ma
dichiarano sin dall’inizio senza alcuna reticenza che dei due contendenti l’uno
ha ragione a l’altro ha torto, che la pace si può salvare soltanto mettendosi
da una parte sola». Così come non è un caso che i funzionari di polizia
rilevino in seno al movimento la presenza di componenti che addirittura erano
contrari agli obiettori di coscienza perchè aspiravano alla formazione di un
«contro-esercito rivoluzionario» nelle forze armate. É il 1974 e sono gli anni
di piombo.
Tentando
quindi di dare una risposta ai nostri interrogativi di partenza, sosteniamo in
conclusione che per un sistema liberaldemocratico un livello di controllo è
sempre fisiologico, per la sua stessa sopravvivenza. In Italia, alcuni fattori
hanno condizionato sia il livello che le modalità di esercizio del controllo,
in qualche caso mettendo in crisi la natura liberaldemocratica del sistema.
Tali fattori sono: la persistenza di una normativa risalente agli anni del
regime fascista, la persistenza di una cultura istituzionale formatasi durante
il regime, la presenza di attori della politica, cioè di partiti a destra e a
sinistra del sistema politico, sui quali soprattutto per i primi decenni di
vita della Repubblica era plausibile che le istituzioni dubitassero della loro
lealtà democratica. Per i loro legami diretti con sistemi non democratici, come
il PCI, o perchè si richiamavano ad esperienze non democratiche, come il MSI,
ciò che faceva salire il livello di guardia. In particolare nel campo dei
diritti civili e umani, un fattore determinante fu la presenza di un partito di
maggioranza relativa, la DC, non insensibile alle sollecitazione del Vaticano,
istituzione che non ha mai esitato a far sentire la sua voce anche contro le
leggi dello Stato italiano. Non bisogna dimenticare che il ministero
dell'Interno fu un “feudo” democristiano ininterrottamente dal 1948 al 1994,
fino al primo governo Berlusconi, quando al Viminale arrivò Maroni. Nemmeno
capi di governo laici come Spadolini (che ebbe Rognoni agli Interni) o Craxi
(che ebbe Scalfaro) o Amato (che ebbe Mancino) riuscirono a strappare alla DC
questo ministero chiave per la vita del Paese.
Non
vorrei essere stato troppo severo nei confronti dei partiti di massa, che
certamente ebbero i loro meriti: sarebbe ingiusto non riconoscere che l'Italia
di oggi non è più quella del “tempo delle lucciole”, sarebbe ingiusto non
riconoscere che essa ha compiuto un grande balzo in avanti sulla strada
dell'emancipazione civile, ma se ciò è vero, è stato anche per quei movimenti
per i diritti umani e civili e per quelle minoranze attive di cui ci parla il
libro di Maori. E tutto ciò, nonostante il controllo.