Pubblico qui di seguito uno
stralcio di un lungo articolo che verrà pubblicato sul prossimo numero di
Quaderni Radicali (il numero 111) ─ uscita prevista per settembre 2015 ─ su una
vicenda che fu oggetto di polemiche per moltissimi anni. Quella che viene
presentata è una ricostruzione basata sulle pubblicazioni citate
nel’articolo e da fascicoli consultati presso l’Archivio centrale dello Stato, in particolare il fondo dell’l’Archivio personale di Aldo Moro e dell’Archivio del Gabinetto
del Ministero dell’Interno, facilmente consultabili dagli studiosi. Le
interviste concesse da Mauro Mellini a Radio Radicale si possono riascoltare
seguendo questi link:
di Andrea Maori
La fuga del colonnello delle SS Herbert Kappler dall’ospedale militare Celio a Roma avvenuta la notte
tra il 14 e il 15 agosto 1977 è stata ampiamente analizzata da numerose
inchieste che si sono susseguite nel tempo a partire dai primi giorni
successivi al suo clamoroso ritorno in Germania.
La condanna Kappler
venne consegnato nel 1947 dalle autorità militari inglesi a quelle italiane su
richiesta e fu messo a disposizione della Procura Militare di Roma che aveva
promosso l’azione penale contro di lui. Il 28 luglio 1948 il Tribunale militare
territoriale lo dichiarò responsabile di omicidio continuato di 335 persone,
parte militari e parte estranee alle forze armate, commesso alla Cave Ardeatine
di Roma, il 24 marzo 1944 e colpevole del reato di requisizione arbitraria di
59 kg. d’oro a danno della comunità ebraica di Roma. Per questi crimini venne
condannato alla pena dell’ergastolo per il primo reato e a 15 anni di reclusione
per il secondo, con l’isolamento diurno per quattro anni.
Kappler godette delle
disposizioni di favore previste dalla Convenzione internazionale sul
trattamento dei prigionieri di guerra che prevedevano, tra l’altro, la non
privazione del suo grado da parte della potenza detentrice; il trattamento non
difforme da quello degli altri prigionieri e l’espiazione della pena nello
stesso stabilimento e alle stesse condizioni adottate per i militari della
potenza detentrice, con diritto al cure mediche, assistenza spirituale etc… .
Per una grave malattia
insorta durante la detenzione nel carcere militare di Gaeta, Kappler fu
trasferito nell’ospedale militare Celio ed il Ministro della Difesa, Arnaldo
Forlani, con decreto 12 marzo 1976 dispose la sospensione dell’esecuzione della
pena fino a quando fosse perdurante la condizione di salute che motivavano il
provvedimento. (…)
Il contesto Con
questo contributo, voglio inserire la vicenda all’interno dei rapporti
italo-tedeschi dal secondo dopoguerra, in particolare nel periodo che va dal
1976 al 1978. In questo modo si può
comprendere meglio come l’operazione, organizzata dall’“Anello”, fosse
congeniale al buon andamento dei rapporti tra il governo italiano e quello
tedesco federale e che, malgrado la clamorosa e rocambolesca modalità di fuga,
il ritorno in Germania del gerarca nazista fosse stato sistemato da tempo dal
punto di vista della legittimità.
Insomma, quella notte di
Ferragosto del 1977, l’azione dei servizi segreti fu solo l’epilogo di
decisioni prese da organismi giudiziari e di un clima politico che si era
maturato da tempo.
L’episodio avvenne in un
periodo in cui l’Italia, in piena crisi economica, aveva assolutamente bisogno
di appoggiarsi alla Repubblica federale tedesca per la concessione di un
consistente prestito di denaro.
Le pressioni tedesche avevano
diverse sfaccettature: da un lato i paesi occidentali nel 1976 si mostravano
particolarmente preoccupati dell’evoluzione politica italiana fortemente
instabile anche a seguito dell’ipotesi di un ingresso del PCI nell’area di
governo.
In una dichiarazione del 13
luglio 1976, subito dopo le elezioni politiche che porteranno all’insediamento
del III governo Andreotti, il cancelliere tedesco federale Helmut Schmidt rese
pubblica una dichiarazione concordata con i governi statunitensi, francesi ed
inglesi con la quale si diffidava l’Italia dal mutare il proprio schieramento
politico tradizionale, se non voleva trovarsi isolata.
L’Italia aveva bisogno
disperatamente dell’appoggio della Repubblica federale tedesca: infatti,
sottolinea Andreotti, Schmidt rappresentava il paese al quale avevamo dato in
garanzia la riserva monetaria per garantire ulteriori prestiti. In un colloquio
tra Andreotti e lo stesso Schmidt avvenuto il 18 gennaio 1977 a Bonn, una parte
delle perplessità tedesche sul ruolo dei comunisti e dei socialisti nel governo
Andreotti vennero fugati ma rimase sempre la questione dei rapporti economici
tra i due paesi.
Ma se la vicenda Kappler ha
sullo sfondo questo quadro politico, un altro aspetto non va sottovalutato: il
27 giugno 1977 il senatore Tullio Vinay, eletto
come indipendente nelle liste del PCI e pastore valdese, consegna al
presidente del Consiglio Giulio Andreotti una petizione di evangelici tedeschi
in favore di Kappler. Colpisce subito la trasversalità dell’iniziativa a
dimostrazione che in Germania si stava consolidando un movimento che, per
motivi umanitari, auspicava il ritorno in suolo tedesco del colonnello delle
SS.
Vinay era in collegamento con
il pastore evangelico Wilm, già internato a Dachau che da molti anni si andava
battendo per la liberazione definitiva di tutti i prigionieri di guerra.
Una presa di posizione
analoga a quella degli evangelici fu presa dai cardinali e vescovi tedeschi che
inoltrarono nel gennaio 1972 al Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat
varie missive.
Ma fin dagli anni Sessanta
furono prese le iniziative per la liberazione di Kappler: a fine 1965 la Lega
dei rimpatriati tedeschi, un’associazione di ex prigionieri tedeschi,
soprattutto provenienti da campi di prigionia sovietici, fece pervenire al
Presidente del Consiglio Aldo Moro una lettera con la quale si auspicava un
provvedimento di grazia a favore di Kappler. (…)
Anche l’associazione dei
reduci tedeschi nello stesso periodo chiese pubblicamente la «liberazione
dell’ultimo prigioniero di guerra tedesco» vecchio e malato forse dimenticando
che a Gaeta insieme a Kappler, nel periodo antecedente al suo trasferimento al
Celio, era detenuto l’uomo di Marzabotto, il maggiore Walter Reder. (…)
La sospensione della pena Tra il 1976 e il 1977 ci fu anche una continua
contrattazione tra le autorità tedesche e quelle italiane tanto che il
provvedimento di sospensione della pena ─ su cui torneremo più avanti ─ del ministro della Difesa Arnaldo Forliani fu
firmato alla presenza dell’ambasciatore tedesco in Italia. In questo clima non mancò
anche un appello del cardinale Ugo Poletti che nel novembre 1976 esortò i
cristiani di Roma a non accrescere l’odio a causa della liberazione di Kappler.
Venne creato un clima quindi
favorevole alla liberazione di Kappler.
Le condizioni c’erano tutte e
la fuga dal Celio era stata preventivata da parecchio tempo. La stessa Annelise
si era preparata per tempo a sfruttare mediaticamente il ritorno a casa del
marito. Corrado Incerti sul L’Europeo
il periodico che pubblicò diverse inchieste da Soltau, luogo di residenza dei
Kappler, e da Amburgo scrisse che le memorie di Annelise erano state ampiamente
vendute in Germania parecchie settimana prima della fuga.
Le reazioni alla fuga In questa atmosfera, il rientro in Germania di
Kappler fu commentato in modo sostanzialmente favorevole dai maggiori giornali
tedeschi: si sottolineava l’azione coraggiosa di Frau Kappler che, con la sua
audacia, aveva aiutato il marito a morire in patria. (…)
In generale, i maggiori
giornali tedeschi colsero l’occasione per riaccendere le antiche polemiche tra
i due paesi, a partire dal cambiamento di alleanze militari dell’Italia in
occasione delle due guerre mondiali, visto come un tradimento dell’Italia nei
confronti della Germania. (…)
Si passa quindi da un
sentimento di pietà verso l’anziano malato internato da trent’anni al desiderio
di riabilitazione di Kappler: sia nell’uno che nell’altro caso l’atteggiamento
era di apprezzamento per il suo ritorno a casa.
Anche il mondo politico
tedesco, pur con accenti diversi, si mostrò sostanzialmente soddisfatto al
punto che Alfred Hauser, presidente di una organizzazione di tutela delle
vittime del regime nazista nel Baden-Wuettermberg definì preoccupanti l’aperta
soddisfazione che in taluni parti si manifestava in quello che fu definito un
«atto di pirateria da lungo tempo preparato»: e criticò la passività degli
organi statali tedeschi e dei partiti politici.
In effetti le dichiarazioni
di molti esponenti politici furono subito all’insegna della tutela di Kappler:
non aspettò nemmeno un giorno pieno dalla fuga il deputato liberale Juergen
Moellemann, Presidente della sottocommissione parlamentare per “l’aiuto
umanitario” per dichiarare di aver inviato un messaggio al Presidente Andreotti
per invitare il Governo Italiano a desistere dall’intenzione di promuovere un
nuovo procedimento giuridico, inteso ad ottenere l’estradizione di Kappler.
Infatti a tutela del
condannato, l’eventuale sua estradizione in Italia trova un limite invalicabile
nell’articolo 16 della Costituzione della Germania federale ─ ancora in vigore
─ il quale vieta che un cittadino tedesco possa essere estradato.
Questa posizione si diffuse
rapidamente e la sua amplificazione diede modo al giornale francese Quotidien de Paris, di definirla come il
tentativo da parte dei dirigenti tedeschi di rifugiarsi in un «formalismo
giuridico confortevole» per non scontentare una maggioranza silenziosa che era
fatta in passato complice del nazismo. Il giornale francese affermò poi che non
vi era salvezza per i tedeschi «se non continuano a perseguitare, senza tregua,
i loro demoni».
In casa socialdemocratica, il
partito del cancelliere Schmidt, il portavoce Lothar Schwartz dichiarò che «a
prescindere dall’aspetto giuridico del problema, si può essere d’avviso che non
dovrebbero esserci ostacoli per la fine dello stato di detenzione di Herbert
Kappler». Una dichiarazione che era destinata a creare polemiche all’interno
del partito: infatti l’ex cancelliere Willy Brandt presidente dell’SPD e
presidente dell’Internazionale socialista, espresse invece serie preoccupazioni
sulla recrudescenze del nazismo nella Germania federale alla luce delle
reazioni dell’opinione pubblica tedesca di fronte al caso Kappler. Brandt aveva
fatto riferimento al numero crescente di lettere che la presidenza della SPD
riceveva in cui si denunciavano le riunioni di associazioni neonaziste.
Immediata la replica del governo federale che in una dichiarazione del
portavoce dichiarò che i gruppi neonazisti erano pienamente vigilati.
I rapporti tra Germania e Italia Fatto sta che in questo contesto era comunque inevitabile
che l’incontro tra Andreotti e Schmidt previsto per il 19 agosto a Verona fosse
rinviato per evitare manifestazioni ostili alla Germania.
Si trattava infatti di un
gioco delle parti per evitare che in Italia le reazioni politiche potessero
turbare il rapporto tra i due paesi.
L’incontro si tenne poi il 1°
dicembre a Valeggio sul Mincio e fu per gran parte dedicato all’esame degli
sviluppi dei rapporti economici italo-tedeschi ed in particolari sugli
investimenti tedeschi in Italia.
Le reazioni politiche in Italia furono molto diverse: ci fu una
immediata destituzione a catene di ufficiali dei carabinieri e di un
procedimento nei confronti dei carabinieri che dovevano vigilare Kappler in
ospedale. La stampa italiana dell’epoca sottolinea i soliti ritardi, confusione
e inefficienza degli apparati statali ma c’è anche chi adombra subito quello
che poi emerse dopo tanti anni e cioè che quella di Kappler fosse una «fuga di
Stato» per risolvere una questione sulla quale, abbiamo visto, insistevano i dirigenti
di Bonn con l’appoggio di vasti settori dell’opinione pubblica tedesca.
In particolare il Presidente
della Comunità ebraica di Roma Fernando Piperno non si mostrò sorpreso perché
da tempo circolavano «strane voci».
Le conseguenze per il governo italiano Sul piano politico chi intuì immediatamente che dietro
la fuga ci fossero i servizi segreti fu Falco Accame, presidente della
Commissione difesa della Camera dei Deputati che in un’intervista a Paese Sera che dichiarò che se una
grossa organizzazione ha facilitato la fuga del nazista, è impensabile che i
nostri servizi segreti non ne abbiano avuto il minimo sentore.
All’interno della maggioranza
di governo la clamorosa fuga di Kappler fu l’occasione per una resa dei conti:
il Ministro della Difesa Vito Lattanzio fu costretto a dimettersi anche se
Andreotti per evitare una crisi di governo agì per dargli la delega al
ministero dei Trasporti a cui fu abbinata la Marina Mercantile. (…)
Il terzo elemento che favorì la
fuga di Kappler dal Celio ─ facendone un’azione preparata minuziosamente con il
concorso dei servizi segreti in modo da non avere successivamente intoppi ─ fu
lo status giuridico del criminale
nazista. Già abbiamo accennato all’art. 16 della legge fondamentale tedesca che
vieta l’estradizione dei propri cittadini, ma a monte vi stava una situazione
particolarmente significativa.
L’analisi radicale Chi analizzò quella situazione fornendo interpretazioni che all’epoca
sembravano profondamente anticonformiste fu il deputato radicale Mauro Mellini.
In un lungo articolo pubblicato nel numero 317 di Storia Illustrata nell’aprile 1984, il deputato radicale ribadì che
quella di Kappler non fu tecnicamente un’evasione.
A supporto di questa
interpretazione era il fatto che i carabinieri che dovevano vigilare al Celio
non furono mai imputati per procurata evasione ma per violata consegna. Inoltre
in data 12 marzo 1976 l’allora ministro della Difesa Arnaldo Forlani firmò un
provvedimento di sospensione della pena inflitta dal Tribunale Militare e che,
a seguito di tale provvedimento, «il Procuratore Militare della Repubblica
emise formale ordine di scarcerazione che fu notificato a Kappler all’Ospedale Militare
del Celio dove si trovava quale detenuto militare in cura. All’atto della
scarcerazione egli elesse domicilio in detto ospedale».
Il colonnello delle SS rimase
quindi «ospite» al Celio pur potendosene andare: evidentemente solo motivi di
opportunità dovuti all’ostilità dell’opinione pubblica italiana giustificavano
la sua presenza a Roma, in attesa, beninteso, di trovare un espediente per
farlo tornare in Germania.
Da tener presente, a conferma
di questa ipotesi, che il Tribunale Militare di Roma, nell’autunno 1976 «dopo
una controversa portata fino alla Corte Costituzionale, in accoglimento di una
vecchia istanza del Kappler, ne dispose la liberazione condizionale
(provvedimento diverso dalla sospensione della pena). Ben strana liberazione
condizionale di un condannato già scarcerato e per di più senza alcuna condizione
o limite». (…)
Naturalmente, a seguito della
fuga, il provvedimento di scarcerazione fu revocato il 16 agosto 1977 (il
giorno dopo il clamoroso rientro in Germania!) «essendo venute a cessare le
condizioni che lo avevano legittimato».
Mellini, nel suo lungo
articolo pubblicato per Storia Illustrata,
arrivò quindi ad una conclusione che conferma come fin dal marzo 1976, con il
provvedimento firmato da Forlani, intervenne un accordo tra il Governo italiano
e quello tedesco. Lo stesso Mellini in un’intervista a Radio Radicale del 18 maggio 1986 disse di sapere che quell’accordo
era stato firmato alla presenza dell’Ambasciatore federale tedesco in Italia.
Ricorda Mellini nell’articolo
di Storia Illustrata: «Io fui l’unico
deputato che contestò apertamente la storia di Kappler trattenuto quale
prigioniero di guerra a trent’anni dalla fine della medesima e sostenni che il
provvedimento di Forlani del 12 marzo del 1976 e la conseguente scarcerazione
avevano privato l’Italia di qualsiasi titolo per trattenere l’ex Colonnello SS
che quindi la storia del “prigioniero di guerra” era una favola, che Kappler giuridicamente
poteva semmai dirsi “sequestrato” e che, se poteva parlarsi di “fuga”, era solo
perché anche i sequestrati “fuggono”».
Il gruppo radicale alla
Camera dei Deputati presentò il 28 settembre 1977 una proposta di legge (n.
1742) per l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta partendo
dal presupposto che sin dall’inizio le vicende della fuga sono apparse connesse
a situazioni tali che «eventuali responsabilità, che del resto è sembrato
difficile potersi escludere, non potessero ricercarsi elusivamente in ordine
alle contingenze della custodia ed in capo al personale ed essa addetto».
La Camera votò la procedura
d’urgenza del provvedimento il 19 ottobre 1977 ma la discussione non iniziò
mai.
Altre inchieste
amministrative e processi finirono sostanzialmente con un nulla di fatto come
una lettera dello stesso Mellini a Giorgio Santacroce, allora Pubblico
ministero presso la Procura di Roma, con la quale si metteva a disposizione per
la ricerca della verità dopo le clamorose rivelazioni del generale Ambrogio
Viviani ─ «pentito dei servizi segreti» come lo definì Mellini ─ che in un’intervista a Panorama del 18 maggio 1986 dal titolo significativo «Gheddafi
figlio nostro» confermò come i politici
italiani avessero promesso al Governo di Bonn di liberarlo. «E qualcuno, in
quella occasione, si comportò di conseguenza, dietro ordini precisi». Ordini
precisi disposti da chi, Viviani non ha mai voluto rivelare anche in successive interviste, ma le inchieste
giornalistiche e di diverse Procure riconducono al ruolo dell’Anello il «noto
servizio» che ha giocato un ruolo determinante nelle vicende della Repubblica
italiana.
Nessun commento:
Posta un commento