martedì 14 luglio 2015

Ferragosto 1977: fuga di Herbert Kappler I Radicali fin da subito sostennero che tecnicamente non fu un’evasione ma una fuga concordata tra Germania e Italia

Pubblico qui di seguito uno stralcio di un lungo articolo che verrà pubblicato sul prossimo numero di Quaderni Radicali (il numero 111) ─ uscita prevista per settembre 2015 ─ su una vicenda che fu oggetto di polemiche per moltissimi anni. Quella che viene presentata è una ricostruzione basata sulle pubblicazioni citate nel’articolo e da fascicoli consultati presso l’Archivio centrale dello Stato, in particolare il fondo dell’l’Archivio personale di Aldo Moro e dell’Archivio del Gabinetto del Ministero dell’Interno, facilmente consultabili dagli studiosi. Le interviste concesse da Mauro Mellini a Radio Radicale si possono riascoltare seguendo questi link: 

di  Andrea Maori

La fuga del colonnello delle SS Herbert Kappler dall’ospedale militare Celio a Roma avvenuta la notte tra il 14 e il 15 agosto 1977 è stata ampiamente analizzata da numerose inchieste che si sono susseguite nel tempo a partire dai primi giorni successivi al suo clamoroso ritorno in Germania.
La condanna Kappler venne consegnato nel 1947 dalle autorità militari inglesi a quelle italiane su richiesta e fu messo a disposizione della Procura Militare di Roma che aveva promosso l’azione penale contro di lui. Il 28 luglio 1948 il Tribunale militare territoriale lo dichiarò responsabile di omicidio continuato di 335 persone, parte militari e parte estranee alle forze armate, commesso alla Cave Ardeatine di Roma, il 24 marzo 1944 e colpevole del reato di requisizione arbitraria di 59 kg. d’oro a danno della comunità ebraica di Roma. Per questi crimini venne condannato alla pena dell’ergastolo per il primo reato e a 15 anni di reclusione per il secondo, con l’isolamento diurno per quattro anni.
Kappler godette delle disposizioni di favore previste dalla Convenzione internazionale sul trattamento dei prigionieri di guerra che prevedevano, tra l’altro, la non privazione del suo grado da parte della potenza detentrice; il trattamento non difforme da quello degli altri prigionieri e l’espiazione della pena nello stesso stabilimento e alle stesse condizioni adottate per i militari della potenza detentrice, con diritto al cure mediche, assistenza spirituale etc… .
Per una grave malattia insorta durante la detenzione nel carcere militare di Gaeta, Kappler fu trasferito nell’ospedale militare Celio ed il Ministro della Difesa, Arnaldo Forlani, con decreto 12 marzo 1976 dispose la sospensione dell’esecuzione della pena fino a quando fosse perdurante la condizione di salute che motivavano il provvedimento.  (…)
Il contesto Con questo contributo, voglio inserire la vicenda all’interno dei rapporti italo-tedeschi dal secondo dopoguerra, in particolare nel periodo che va dal 1976 al 1978.  In questo modo si può comprendere meglio come l’operazione, organizzata dall’“Anello”, fosse congeniale al buon andamento dei rapporti tra il governo italiano e quello tedesco federale e che, malgrado la clamorosa e rocambolesca modalità di fuga, il ritorno in Germania del gerarca nazista fosse stato sistemato da tempo dal punto di vista della legittimità.
Insomma, quella notte di Ferragosto del 1977, l’azione dei servizi segreti fu solo l’epilogo di decisioni prese da organismi giudiziari e di un clima politico che si era maturato da tempo.

L’episodio avvenne in un periodo in cui l’Italia, in piena crisi economica, aveva assolutamente bisogno di appoggiarsi alla Repubblica federale tedesca per la concessione di un consistente prestito di denaro.
Le pressioni tedesche avevano diverse sfaccettature: da un lato i paesi occidentali nel 1976 si mostravano particolarmente preoccupati dell’evoluzione politica italiana fortemente instabile anche a seguito dell’ipotesi di un ingresso del PCI nell’area di governo.
In una dichiarazione del 13 luglio 1976, subito dopo le elezioni politiche che porteranno all’insediamento del III governo Andreotti, il cancelliere tedesco federale Helmut Schmidt rese pubblica una dichiarazione concordata con i governi statunitensi, francesi ed inglesi con la quale si diffidava l’Italia dal mutare il proprio schieramento politico tradizionale, se non voleva trovarsi isolata.
L’Italia aveva bisogno disperatamente dell’appoggio della Repubblica federale tedesca: infatti, sottolinea Andreotti, Schmidt rappresentava il paese al quale avevamo dato in garanzia la riserva monetaria per garantire ulteriori prestiti. In un colloquio tra Andreotti e lo stesso Schmidt avvenuto il 18 gennaio 1977 a Bonn, una parte delle perplessità tedesche sul ruolo dei comunisti e dei socialisti nel governo Andreotti vennero fugati ma rimase sempre la questione dei rapporti economici tra i due paesi.
Ma se la vicenda Kappler ha sullo sfondo questo quadro politico, un altro aspetto non va sottovalutato: il 27 giugno 1977 il senatore Tullio Vinay, eletto  come indipendente nelle liste del PCI e pastore valdese, consegna al presidente del Consiglio Giulio Andreotti una petizione di evangelici tedeschi in favore di Kappler. Colpisce subito la trasversalità dell’iniziativa a dimostrazione che in Germania si stava consolidando un movimento che, per motivi umanitari, auspicava il ritorno in suolo tedesco del colonnello delle SS.  
Vinay era in collegamento con il pastore evangelico Wilm, già internato a Dachau che da molti anni si andava battendo per la liberazione definitiva di tutti i prigionieri di guerra.
Una presa di posizione analoga a quella degli evangelici fu presa dai cardinali e vescovi tedeschi che inoltrarono nel gennaio 1972 al Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat varie missive.
Ma fin dagli anni Sessanta furono prese le iniziative per la liberazione di Kappler: a fine 1965 la Lega dei rimpatriati tedeschi, un’associazione di ex prigionieri tedeschi, soprattutto provenienti da campi di prigionia sovietici, fece pervenire al Presidente del Consiglio Aldo Moro una lettera con la quale si auspicava un provvedimento di grazia a favore di Kappler. (…)
Anche l’associazione dei reduci tedeschi nello stesso periodo chiese pubblicamente la «liberazione dell’ultimo prigioniero di guerra tedesco» vecchio e malato forse dimenticando che a Gaeta insieme a Kappler, nel periodo antecedente al suo trasferimento al Celio, era detenuto l’uomo di Marzabotto, il maggiore Walter Reder. (…)
La sospensione della pena Tra il 1976 e il 1977 ci fu anche una continua contrattazione tra le autorità tedesche e quelle italiane tanto che il provvedimento di sospensione della pena ─ su cui torneremo più avanti ─  del ministro della Difesa Arnaldo Forliani fu firmato alla presenza dell’ambasciatore tedesco in Italia. In questo clima non mancò anche un appello del cardinale Ugo Poletti che nel novembre 1976 esortò i cristiani di Roma a non accrescere l’odio a causa della liberazione di Kappler.
Venne creato un clima quindi favorevole alla liberazione di Kappler.
Le condizioni c’erano tutte e la fuga dal Celio era stata preventivata da parecchio tempo. La stessa Annelise si era preparata per tempo a sfruttare mediaticamente il ritorno a casa del marito. Corrado Incerti sul L’Europeo il periodico che pubblicò diverse inchieste da Soltau, luogo di residenza dei Kappler, e da Amburgo scrisse che le memorie di Annelise erano state ampiamente vendute in Germania parecchie settimana prima della fuga.
Le reazioni alla fuga In questa atmosfera, il rientro in Germania di Kappler fu commentato in modo sostanzialmente favorevole dai maggiori giornali tedeschi: si sottolineava l’azione coraggiosa di Frau Kappler che, con la sua audacia, aveva aiutato il marito a morire in patria. (…)
In generale, i maggiori giornali tedeschi colsero l’occasione per riaccendere le antiche polemiche tra i due paesi, a partire dal cambiamento di alleanze militari dell’Italia in occasione delle due guerre mondiali, visto come un tradimento dell’Italia nei confronti della Germania. (…)
Si passa quindi da un sentimento di pietà verso l’anziano malato internato da trent’anni al desiderio di riabilitazione di Kappler: sia nell’uno che nell’altro caso l’atteggiamento era di apprezzamento per il suo ritorno a casa.
Anche il mondo politico tedesco, pur con accenti diversi, si mostrò sostanzialmente soddisfatto al punto che Alfred Hauser, presidente di una organizzazione di tutela delle vittime del regime nazista nel Baden-Wuettermberg definì preoccupanti l’aperta soddisfazione che in taluni parti si manifestava in quello che fu definito un «atto di pirateria da lungo tempo preparato»: e criticò la passività degli organi statali tedeschi e dei partiti politici.
In effetti le dichiarazioni di molti esponenti politici furono subito all’insegna della tutela di Kappler: non aspettò nemmeno un giorno pieno dalla fuga il deputato liberale Juergen Moellemann, Presidente della sottocommissione parlamentare per “l’aiuto umanitario” per dichiarare di aver inviato un messaggio al Presidente Andreotti per invitare il Governo Italiano a desistere dall’intenzione di promuovere un nuovo procedimento giuridico, inteso ad ottenere l’estradizione di Kappler.
Infatti a tutela del condannato, l’eventuale sua estradizione in Italia trova un limite invalicabile nell’articolo 16 della Costituzione della Germania federale ─ ancora in vigore ─ il quale vieta che un cittadino tedesco possa essere estradato.
Questa posizione si diffuse rapidamente e la sua amplificazione diede modo al giornale francese Quotidien de Paris, di definirla come il tentativo da parte dei dirigenti tedeschi di rifugiarsi in un «formalismo giuridico confortevole» per non scontentare una maggioranza silenziosa che era fatta in passato complice del nazismo. Il giornale francese affermò poi che non vi era salvezza per i tedeschi «se non continuano a perseguitare, senza tregua, i loro demoni».
In casa socialdemocratica, il partito del cancelliere Schmidt, il portavoce Lothar Schwartz dichiarò che «a prescindere dall’aspetto giuridico del problema, si può essere d’avviso che non dovrebbero esserci ostacoli per la fine dello stato di detenzione di Herbert Kappler». Una dichiarazione che era destinata a creare polemiche all’interno del partito: infatti l’ex cancelliere Willy Brandt presidente dell’SPD e presidente dell’Internazionale socialista, espresse invece serie preoccupazioni sulla recrudescenze del nazismo nella Germania federale alla luce delle reazioni dell’opinione pubblica tedesca di fronte al caso Kappler. Brandt aveva fatto riferimento al numero crescente di lettere che la presidenza della SPD riceveva in cui si denunciavano le riunioni di associazioni neonaziste. Immediata la replica del governo federale che in una dichiarazione del portavoce dichiarò che i gruppi neonazisti erano pienamente vigilati.
I rapporti tra Germania e Italia Fatto sta che in questo contesto era comunque inevitabile che l’incontro tra Andreotti e Schmidt previsto per il 19 agosto a Verona fosse rinviato per evitare manifestazioni ostili alla Germania.
Si trattava infatti di un gioco delle parti per evitare che in Italia le reazioni politiche potessero turbare il rapporto tra i due paesi.
L’incontro si tenne poi il 1° dicembre a Valeggio sul Mincio e fu per gran parte dedicato all’esame degli sviluppi dei rapporti economici italo-tedeschi ed in particolari sugli investimenti tedeschi in Italia.
Le reazioni politiche  in Italia furono molto diverse: ci fu una immediata destituzione a catene di ufficiali dei carabinieri e di un procedimento nei confronti dei carabinieri che dovevano vigilare Kappler in ospedale. La stampa italiana dell’epoca sottolinea i soliti ritardi, confusione e inefficienza degli apparati statali ma c’è anche chi adombra subito quello che poi emerse dopo tanti anni e cioè che quella di Kappler fosse una «fuga di Stato» per risolvere una questione sulla quale, abbiamo visto, insistevano i dirigenti di Bonn con l’appoggio di vasti settori dell’opinione pubblica tedesca.
In particolare il Presidente della Comunità ebraica di Roma Fernando Piperno non si mostrò sorpreso perché da tempo circolavano «strane voci».
Le conseguenze per il governo italiano Sul piano politico chi intuì immediatamente che dietro la fuga ci fossero i servizi segreti fu Falco Accame, presidente della Commissione difesa della Camera dei Deputati che in un’intervista a Paese Sera che dichiarò che se una grossa organizzazione ha facilitato la fuga del nazista, è impensabile che i nostri servizi segreti non ne abbiano avuto il minimo sentore.
All’interno della maggioranza di governo la clamorosa fuga di Kappler fu l’occasione per una resa dei conti: il Ministro della Difesa Vito Lattanzio fu costretto a dimettersi anche se Andreotti per evitare una crisi di governo agì per dargli la delega al ministero dei Trasporti a cui fu abbinata la Marina Mercantile. (…)
Il terzo elemento che favorì la fuga di Kappler dal Celio ─ facendone un’azione preparata minuziosamente con il concorso dei servizi segreti in modo da non avere successivamente intoppi ─ fu lo status giuridico del criminale nazista. Già abbiamo accennato all’art. 16 della legge fondamentale tedesca che vieta l’estradizione dei propri cittadini, ma a monte vi stava una situazione particolarmente significativa.
L’analisi radicale Chi analizzò quella situazione fornendo interpretazioni che all’epoca sembravano profondamente anticonformiste fu il deputato radicale Mauro Mellini. In un lungo articolo pubblicato nel numero 317 di Storia Illustrata nell’aprile 1984, il deputato radicale ribadì che quella di Kappler non fu tecnicamente un’evasione.
A supporto di questa interpretazione era il fatto che i carabinieri che dovevano vigilare al Celio non furono mai imputati per procurata evasione ma per violata consegna. Inoltre in data 12 marzo 1976 l’allora ministro della Difesa Arnaldo Forlani firmò un provvedimento di sospensione della pena inflitta dal Tribunale Militare e che, a seguito di tale provvedimento, «il Procuratore Militare della Repubblica emise formale ordine di scarcerazione che fu notificato a Kappler all’Ospedale Militare del Celio dove si trovava quale detenuto militare in cura. All’atto della scarcerazione egli elesse domicilio in detto ospedale».
Il colonnello delle SS rimase quindi «ospite» al Celio pur potendosene andare: evidentemente solo motivi di opportunità dovuti all’ostilità dell’opinione pubblica italiana giustificavano la sua presenza a Roma, in attesa, beninteso, di trovare un espediente per farlo tornare in Germania.
Da tener presente, a conferma di questa ipotesi, che il Tribunale Militare di Roma, nell’autunno 1976 «dopo una controversa portata fino alla Corte Costituzionale, in accoglimento di una vecchia istanza del Kappler, ne dispose la liberazione condizionale (provvedimento diverso dalla sospensione della pena). Ben strana liberazione condizionale di un condannato già scarcerato e per di più senza alcuna condizione o limite». (…)
Naturalmente, a seguito della fuga, il provvedimento di scarcerazione fu revocato il 16 agosto 1977 (il giorno dopo il clamoroso rientro in Germania!) «essendo venute a cessare le condizioni che lo avevano legittimato».
Mellini, nel suo lungo articolo pubblicato per Storia Illustrata, arrivò quindi ad una conclusione che conferma come fin dal marzo 1976, con il provvedimento firmato da Forlani, intervenne un accordo tra il Governo italiano e quello tedesco. Lo stesso Mellini in un’intervista a Radio Radicale del 18 maggio 1986 disse di sapere che quell’accordo era stato firmato alla presenza dell’Ambasciatore federale tedesco in Italia.
Ricorda Mellini nell’articolo di Storia Illustrata: «Io fui l’unico deputato che contestò apertamente la storia di Kappler trattenuto quale prigioniero di guerra a trent’anni dalla fine della medesima e sostenni che il provvedimento di Forlani del 12 marzo del 1976 e la conseguente scarcerazione avevano privato l’Italia di qualsiasi titolo per trattenere l’ex Colonnello SS che quindi la storia del “prigioniero di guerra” era una favola, che Kappler giuridicamente poteva semmai dirsi “sequestrato” e che, se poteva parlarsi di “fuga”, era solo perché anche i sequestrati “fuggono”».
Il gruppo radicale alla Camera dei Deputati presentò il 28 settembre 1977 una proposta di legge (n. 1742) per l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta partendo dal presupposto che sin dall’inizio le vicende della fuga sono apparse connesse a situazioni tali che «eventuali responsabilità, che del resto è sembrato difficile potersi escludere, non potessero ricercarsi elusivamente in ordine alle contingenze della custodia ed in capo al personale ed essa addetto».
La Camera votò la procedura d’urgenza del provvedimento il 19 ottobre 1977 ma la discussione non iniziò mai.
Altre inchieste amministrative e processi finirono sostanzialmente con un nulla di fatto come una lettera dello stesso Mellini a Giorgio Santacroce, allora Pubblico ministero presso la Procura di Roma, con la quale si metteva a disposizione per la ricerca della verità dopo le clamorose rivelazioni del generale Ambrogio Viviani ─ «pentito dei servizi segreti» come lo definì Mellini ─  che in un’intervista a Panorama del 18 maggio 1986 dal titolo significativo «Gheddafi figlio nostro»  confermò come i politici italiani avessero promesso al Governo di Bonn di liberarlo. «E qualcuno, in quella occasione, si comportò di conseguenza, dietro ordini precisi». Ordini precisi disposti da chi, Viviani non ha mai voluto rivelare anche  in successive interviste, ma le inchieste giornalistiche e di diverse Procure riconducono al ruolo dell’Anello il «noto servizio» che ha giocato un ruolo determinante nelle vicende della Repubblica italiana.

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