giovedì 6 novembre 2008

Documenti: Gianni Barro di Lettere riformiste sulla vittoria di Barack Obama

Barack ObamaPossiamo? Ancora una volta dobbiamo attraversare l'Atlantico per andare a scuola di democrazia. Questa volta, per diminuire le spese di viaggio, ci aggiungiamo anche il patriottismo. Perché non voglio parlare solo di Barack Hussein Obama, ma anche di John McCain. i quali ci hanno dato mercoledì notte (per noi) una grande lezione di come si deve condurre la lotta quando si è uomini di Stato. (...)Non si tiri fuori la storia maledetta di Guantanamo e dell'Iraq. Quelle le ha inventate Giorgio W. Bush che tanti sperano provi nella seconda parte della sua vita quello che (omicidio a parte) provò il fu Re Lear. Ma la democrazia e la nazione americana le hanno inventate Abraham Lincoln, George Washington, Thomas Jefferson e compagnia cantando. Mettiamoci anche Tocqueville per orgoglio europeo. Che uno dei contendenti venga a proclamare davanti al mondo la sua sconfitta prima ancora che sia certa, riconosca non sollecitato i meriti dell'avversario vincente e si metta a sua disposizione quando ci siano di mezzo gli interessi della patria, è cosa che a noi italiani ci fa trasecolare. Che il vincitore non parli mai con il pronome personale di prima persona singolare (io) ma dica sempre noi riferendosi non solo ai suoi elettori ma a tutta la nazione, è cosa che a noi italiani ci fa trasecolare. Così come ci fa trasecolare che il futuro presidente della nazione attualmente più potente del mondo, gli Stati Uniti d'America, utilizzi un normale podio per colloquiare idealmente con cittadini indicati quasi con nome e cognome come donne, ispanici, omosessuali, oltre che cittadini non etichettabili per categorie di discriminazione. Ci fanno trasecolare Al Gore e Jesse Jackson mescolati alla folla del Grand Park di Chicago invece che rinchiusi nel recinto zoologico dei Vip. Come pure ci fa trasecolare l'invasione finale del palco da parte di una trentina di parenti e sostenitori di Obama con la pelle non esattamente chiara: ho chiuso gli occhi per ricostruire una scena virtuale dove ci fossero Bossi e Borghezio. No, non c'erano, non c'era posto per loro. Probabilmente stavano sgranando noci di cocco in qualche piantagione del Centro Africa.


Obama ha vinto. Da outsider ha portato avanti con cocciutaggine la sua battaglia salendo di gradino in gradino la scala del consenso. Un consenso che ammucchiava martellando le folle che lo seguivano sempre più numerose con due parole magiche: speranza e cambiamento. Novello Aladino,  con quelle due parole ha aperto tutte le porte che gli si  paravano innanzi. La prossima sarà quella di una casa bianca sulla Pennsylvania Avenue, Washington DC, al numero 1600, da dove lui, nero, parlerà a sei miliardi abbondanti di uomini di cinque continenti, e dove riceverà i personaggi più influenti del mondo nella mitica Sala Ovale.


Speranza e cambiamento sono due parole che noi italiani dobbiamo mandare a memoria, per declinarle prima di tutto tra noi e poi di fronte al paese tutto. Compresi gli inquilini delle piantagioni di cocco.


Queste due parole hanno convinto l'America dopo otto anni di buio pesto a seguire il nipote di un povero contadino pastore del Kenya,  nato in un'isola del Pacifico che solo da pochi decenni è territorio statunitense. Sono due parole che si intrecciano: non c'è cambiamento  se non c'è speranza, non c'è speranza se non la si appiccica a un cambiamento profondamente sognato. Un cambiamento non limitato al nostro essere di oggi ma allargato a quello che vogliamo sia il domani.


Non si accende la speranza degli uomini se non gli si indica con chiarezza e semplicità per quale cambiamento li si chiama a lottare insieme. E se non gli si fa scegliere chi li guiderà nel cammino. Questo ci insegnano la vita di Obama, la storia degli americani, la storia del socialismo, la vita del riformismo.


Meditiamo gente meditiamo.


Gianni Barro


5 novembre 2008


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