venerdì 31 ottobre 2008

Enzo Tortora, giornalista con il culto della libertà - di Riccardo Migliorati


Libro di Vittorio Pezzuto


Recensione del libro Applausi e sputi. Le due vite di Enzo Tortora publicata ieri, 30 ottobre 2008, sul Corriere dell'Umbria


di Riccardo Migliorati


Venticinque anni è l’intervallo che scandisce lo scorrere delle generazioni umane ma è anche  il primo stadio evolutivo che segna la metamorfosi della cronaca verso la storia. Come filtrati da un setaccio immaginario che trova nella coscienza civile di un Paese, più o meno matura che sia, la sua impalpabile consistenza, fatti gravati per anni da un corollario bollente di emotività, giudizi e pregiudizi stemperabili solo dal vento rischiarante degli anni,precipitano come cristalli di sale sui tavoli degli storiografi nel primo loro scarno abbozzo di verità, a disposizione di una serena analisi. Un ragazzo italiano che oggi abbia meno di trent’anni può legittimamente non sapere chi sia stato Enzo Tortora; (...)


i suoi successi televisivi rimasti insuperati, in termini d’ascolto, non vengono più ricordati nemmeno da chi se ne giovò lautamente (nei periodici appuntamenti in cui la RAI celebra sé stessa l’omaggio al presentatore di Portobello se c’è è appena accennato, quasi un’imbarazzata formalità), come anche l’ odissea giudiziaria che minò in maniera determinante la carriera ma anche la vita stessa di Tortora appartengono ormai quasi solo alla memoria della sua grande famiglia, quella che dal calore più stretto dei suoi cari si allarga fino all’abbraccio di quel Partito Radicale che spalancò le sue porte all’uomo Enzo nel momento di maggior solitudine. Fu Pannella infatti che individuò nel suo caso un simbolo dello sbilanciamento abnorme che il sistema giudiziario italiano conobbe sulla spinta dell’emergenza del terrorismo, per mano di leggi speciali che se da una parte consentirono di annientare la lotta armata dall’altro minarono marcatamente i livelli di garanzia degli imputati a favore dei poteri discrezionali della pubblica accusa. Ripercorrere la vicenda umana di Enzo Tortora ad un quarto di secolo dall’inizio di un calvario giudiziario così assurdamente spietato da superare quello immaginifico del Josef K. partorito dal genio letterario di Kafka ne “Il processo”, significa sopratutto consentire ad una comunità nazionale ed istituzionale di fermarsi davanti ad uno specchio per fare il punto sul proprio stato di salute. L’occasione per farlo oggi ce la dona, con un merito che non può non essere ricambiato da riconoscenza, Vittorio Pezzuto con il voluminoso “Applausi e sputi; le due vite di Enzo Tortora” (Ed. Sperling & Kupfer, 520 pg, € 15), di fatto la prima vera e completa biografia del giornalista genovese. Il giovane autore, giornalista professionista  attualmente portavoce del Ministro per la Pubblica Amministrazione ed Innovazione Renato Brunetta, la vicenda amara di Tortora l’ha conosciuta e partecipata molto presto, quando ancora minorenne già frequentava quella comunità radicale che nell’Italia in cerca di modernità di quegli anni, rappresentava un’autentica scuola di formazione  per future classi dirigenti. Lo sguardo di Pezzuto non è quindi neutro rispetto ai fatti, il “caso Tortora” lo segnò negli anni della sua formazione politica e culturale tanto da spingerlo a fare di quella tragedia umana l’oggetto della propria tesi di laurea. Ma l’amicizia cementata negli anni bui del dolore e della lotta non fa velo sulla scientificità dell’opera; la parabola biografica del grande presentatore televisivo è ricostruita con un’attenzione alla verità delle fonti che non ha nulla da invidiare al metodo della migliore storiografia ufficiale;così, ogni citazione riportata trova ulteriori specifici approfondimenti in un’appendice di note a margine che da sola varrebbe la consistenza di un libro e la narrazione della seconda vita del protagonista, quella cominciata con il suo spettacolare arresto in quel 17 giugno del 1983, scorre via lineare nella nuda verità dei fatti lasciando che gli stessi parlino da soli in tutta la loro tragica evidenza, così drammatica in sé da rendere superflue ulteriori marcature. Chi è stato Enzo Tortora? Fondamentalmente un ottimo giornalista, di grande formazione umanistica (il suo amore per i libri e per la cultura è tutt’ora testimoniata da una biblioteca sterminata di titoli), con un culto pressoché assoluto per la libertà. Dopo la laurea il Giurisprudenza vince un concorso in RAI quando ancora l’azienda pubblica televisiva assumeva i migliori attraverso quello che dovrebbe essere l’unico criterio di selezione previsto dalla legge (allo stesso modo in quegli anni entrarono calibri come Umberto Eco, Piero Angela,Ugo Gregoretti, Corrado Augias, per citarne tra i più noti) e comincia una fulminante carriera che in breve tempo lo porta dalla radio alla conduzione davanti alle telecamere. Il grande successo arriva con Campanile Sera (1959) ma Tortora non è mai tentato di barattarlo con una limitazione della propria libertà, accettando compromessi o legandosi ai mandarini politici che allora più di oggi “condizionavano” la RAI; così nel corso di una puntata di Telefortuna (1962) si rifiuta di censurare un’ innocente caricatura di Amintore Fanfani fatta da Alighiero Noschese e viene cacciato dall’azienda, ripiegando nella vicina Svizzera. La vocazione per il giornalismo trova in questo periodo il tempo ed il modo per segnare delle tappe importanti; così, divenuto pubblicista, Enzo comincia a collaborare alla Domenica del Corriere con una rubrica, “Processo alla tv”, in cui dice la sua, fedele al suo stile caustico e sottile, senza veli o autocensure, su tutto ciò che colpisce il suo sguardo di addetto ai lavori. A “La Nazione” poi invece collaborerà come inviato, senza limiti di curiosità. Dopo tre anni di esilio è tempo per il rientro in RAI con la conduzione de “La domenica sportiva”, che affidata alle mani di un giornalista colto e non specializzato in campo calcistico, trova quella formula moderna che sarebbe arrivata fino ai nostri giorni: filmati rapidi, ospiti in studio e soprattutto l’invenzione della moviola, croce e delizia di tutti gli appassionati. Il successo del programma è costante ma Enzo non si “normalizza”, rimane sé stesso, libero di pensare e dire quello che crede. In un’intervista ad Oggi  confida di voler abbandonare una tv troppo irrigimentata e bloccata, “la RAI è ormai un baraccone insostenibile- dice- finchè non ci sarà concorrenza sarà così”. Una frase da liberale autentico, rigoroso ed antipartitocratico, che gli costerà stavolta il licenziamento in tronco. Senza lavoro e solo con la qualifica di pubblicista, riceve da “La Nazione” la proposta di fare praticantato per accedere al professionismo giornalistico; sono gli anni della sbornia rivoluzionaria che contagia l’intellighenzia in tutti i suoi livelli, ma Enzo rimane fedele alla sua indole liberale non lesinando ironie salaci contro il conformismo che contagia gran parte della cultura italiana. Nel 1970 capita un episodio che focalizza in pieno il carattere di Tortora; Walter Chiari e Lelio Luttazzi vengono arrestati per una vicenda di droga da cui il secondo uscirà completamente scagionato;dapprima Tortora, derogando per una volta dalla sua cultura garantista, attaccherà il grande conduttore ancora in attesa di giudizio, poi chiederà lui pubbliche scuse con una pagina speciale, di quelle che non avrebbe poi mai letto sul suo conto, quando stavolta sarà lui ad uscire, a pezzi ma pulito, da un’ odissea giudiziaria ancor più pesante. Nel 1977 sarà poi l’amico Massimo Fichera a pregarlo di tornare in RAI; Tortora accetta, ma solo da libero professionista, mai più in esclusiva. Così sua sorella Anna propone il progetto che rimarrà nella storia, quel Portobello del venerdì che ancora oggi rappresenta la matrice originaria di tanti programmi con protagonista  la gente comune, senza però l’abitudine all’aggiustamento a tavolino delle storie che è oggi prassi ordinaria e risaputa. Nei primi anni ’80 partecipa alla nascita di Rete 4 poi, come un fulmine a ciel sereno, arriva il trauma che segna l’inizio della sua seconda vita; nel contesto di una maxiretata senza precedenti (856 arresti) ordinata dai sostituti procuratori Lucio Di Pietro e Felice di Persia e ispirata dalle confessioni di due “pentiti” della camorra, Giovanni Pandico e Pasquale Barra,affiliati al clan Cutolo, Enzo Tortora viene arrestato con l’accusa  di traffico di droga e associazione malavitosa. Di colpo l’uomo colto e raffinato ed il presentatore più popolare della tv diventa un mostro da esporre al pubblico ludibrio. Il mondo giornalistico italiano, salvo poche eccezioni (Massimo Fini, Enzo Biagi, Gianni Riotta, Rossana Rossanda e pochi altri senza tentennamenti) si schiera all’unisono dalla parte della procura mentre l’opinione pubblica si divide tra innocentisti e colpevolisti, sulla base solo d’impalpabili intuizioni e presentimenti, perché le prove appaiono come un fastidioso ingrediente non richiesto. E’ l’inizio di una pochade giudiziaria surreale e grottesca  che nemmeno un moderno Molière  sarebbe stato in grado di concepire. Una pittoresca compagnia di millantatori, mentitori patentati ed avanzi di galera assunti al grado di testimoni attendibili, fanno a gara per affibbiare a Tortora l’incredibile patente del perfetto camorrista. Si tratta di una panzana galattica ma l’ordine giudiziario fa quadrato corporativo attorno ai colleghi e molti cronisti organizzano un  brindisi alla condanna di Tortora, scrivendo forse la pagina più nera della storia recente del giornalismo italiano. Enzo è ora un uomo solo, unicamente confortato dall’affetto dei propri cari ma come spesso capita quando in Italia si rimane soli sono i radicali a bussare alla porta. Il leader radicale desidera che il caso riceva il massimo della risonanza e propone a Tortora di capeggiare le liste alle elezioni europee (1984). Sarà un trionfo assoluto, ma chi pensava che il nostro potesse sfruttare come Toni Negri lo scranno parlamentare per sfuggire alle patrie galere dovrà presto ricredersi;Tortora rinuncerà all’immunità e dopo essersi dimesso si consegnerà ai carabinieri con un rientro spettacolare, figlio del genio comunicativo del miglior Pannella. Il calvario processuale viene così affrontato nella sua brutale assurdità senza riparo p paracadute, ma solo munito del conforto della propria innocenza. In primo grado il pubblico ministero Diego Marmo (che in aula arriverà ad affermare che Tortora sarebbe stato eletto grazie ai voti della camorra), chiederà ed otterrà  una condanna pari a dieci anni. All’atto della lettura delle motivazioni pian piano in diversi cominciano a capacitarsi dell’inconsistenza delle prove e nel fronte giornalistico inizia a sfaldarsi il blocco del monolite colpevolista; nel campo politico parallelamente, radicali, liberali e socialisti promuovono un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati che vincerà nelle urne, ma come quasi sempre capita in Italia, verrà stravolto dal Parlamento all’atto del suo recepimento in legge. Per Tortora sono anni bui di prigionia fino al processo d’appello; la salute comincia a segnare il passo ma finalmente  il 15 settembre 1986 il giudice Rocco leggerà la sentenza di totale assoluzione dalle accuse di associazione a delinquere di stampo camorristico e di spaccio di droga che farà implodere come un castello di sabbia quel teorema mai dimostrato figlio del delirio di criminali patentati come  i “pentiti” Barra, Melluso e Pandico. Tortora avrà però solo il tempo di riaffacciarsi dagli schermi del suo “Portobello” (1987) per riabbracciare il pubblico (“dove eravamo rimasti?”dirà all’accendersi delle telecamere), poi un cancro ai polmoni non casuale lo costringerà al ritiro fino all’epilogo della morte (1988). La ricostruzione dei fatti scorre nel libro di Pezzuto con un ritmo  incalzante ed uno stile avvincente dove la passione del militante si fonde con il rigore scientifico della ricostruzione storiografica. Resta da chiedersi cosa abbia imparato l’Italia da questa amara vicenda; Enzo Tortora è morto a 60 anni di cattiva giustizia e giace in terra senza aver prima ricevuto le scuse da chi lo condannò come da nessuno dei tanti che lo calunniarono affrettatamente,  la responsabilità civile dei magistrati è stata di fatto esautorata e come tutti i loro colleghi anche i giudici Di Pietro (Lucio), Sansone e Marmo si sono giovati dell’avanzamento automatico degli scatti di carriera senza nulla pagare ed infine anche il nostro Ordine dei giornalisti, come ogni cosa perennemente in attesa di riforma in questo paese, ha attraversato interi decenni rimanendo immacolato, sempre uguale a sé stesso. E’ il segno del destino di un Paese dalla scarsa memoria storica, dalla coscienza civile volubile e molto più incline alle controriforme che alle riforme perché infondo, come per il principe di Salina ne “Il gattopardo” è bene che tutto cambi purché rimanga come prima. Dal giovane Vittorio Pezzuto viene però oggi un esempio di impegno civile e di memoria storica che oltre ad omaggiare un grande italiano, vittima di un tragico errore, ci sprona a far sì che il ricordo del passato sia soprattutto ragione dell’agire per l’oggi. Anche per ciò questo bel libro dovrebbe circolare il più possibile e più che mai tra le mani giovani di chi, si spera almeno un giorno, potrà avere la possibilità di diventare la classe dirigente dell’Italia di domani.


 


 


Dott. Riccardo Migliorati


 


Giornalista free lance


 


 


 

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