I detenuti e le detenute generalmente vivono in ambienti posti fuori mano rispetto all’andirivieni degli scambi fra i residenti liberi di una città, come nel caso del carcere di Capanne situato a circa 15 chilometri da Perugia. Così le esistenze delle persone ristrette nella propria libertà sono difficili da mettere a fuoco e sovente costituiscono un mondo a parte che gli abitanti locali potrebbero anche non incontrare o incrociare mai. A meno che non si voglia considerare “incontro” il sentir parlare del fenomeno carcerario in termini di criminalità, sicurezza/insicurezza, sovraffollamento, provvedimenti di depenalizzazione, oppure di costi economici. Se intendiamo invece con la parola “incontro” un’occasione di conoscenza e di scambio fra esseri umani, occorre che i cittadini di un certo territorio, se lo ritengono opportuno, si pongano in un ascolto attivo per intercettare le possibilità, invero non frequentissime, di mettersi in contatto con le persone ristrette nella propria libertà.
Progettualità formative tenute all’interno della prigione certamente esistono e permettono così ad alcune persone di entrare sporadicamente nelle strutture, tuttavia moltiplicare attività che aiutino a conoscere più da vicino l’ambiente penitenziario e coloro che ci vivono potrebbe dare un grande respiro sociale all’approfondimento della questione. Il recupero delle potenzialità degli individui e delle loro capacità di esprimersi, la ricostruzione di un percorso di cittadinanza passano necessariamente per l’elaborazione di interventi mirati che rendano conto delle dinamiche interattive con il contesto. In tempi di pandemia, si può immaginare però come queste azioni siano sensibilmente ridotte, fino ad arrivare al quasi azzeramento. (segue)
Per
mia fortuna, ho partecipato alla progettazione di uno di questi percorsi di
cittadinanza rivolti a persone detenute nel carcere di Capanne, progetto
cominciato sul finire dell’anno 2014 e poi completato a giugno 2015; all’epoca
insegnavo all’Università per stranieri di Perugia, che era partner del progetto
INTRA, insieme a altri soggetti fra cui Frontiera lavoro, che qui è
rappresentata da Luca Verdolini.
Insegnare
italiano in carcere significa relazionarsi con discenti che presentano
caratteristiche profondamente disomogenee fra loro, come livelli culturali,
estrazioni sociali e geografiche, età, percorsi scolastici, tipologie
caratteriali ed incidenza dei diversi tipi di reati commessi. Una forma di
indagine riflessiva condotta sul contesto può far acquisire una maggiore
consapevolezza di quanto succede in classe, in quanto l’attività educativa può
essere definita come un processo comunicativo in cui qualcuno aiuta qualcun
altro ad acquisire o a sviluppare delle conoscenze, dei saperi, delle capacità
interpretative.
Il Progetto
“INTRA” nasceva con l’intento di favorire il miglioramento della condizione
sociale e lavorativa dei soggetti detenuti presso il Nuovo Complesso
penitenziario di Capanne (PG), facilitando il loro accesso al mercato del
lavoro attraverso una serie di azioni di orientamento, formazione, tirocinio e counselling, con effetti positivi sui
livelli di recidiva. Tra i corsi di formazione, figuravano profili
professionali di Addetto alla cucina (sezione maschile), Addetto alla piccola
manutenzione (sezione maschile), Operatore dell’abbigliamento (sezione
femminile) e Addetto alla gestione e conduzione di piccole aziende agricole
(sezione maschile).
Una
mia collega entrava in carcere per fare lezione di Italiano, e teneva un diario
didattico di quel che succedeva in classe, pubblicato alla fine
dell’esperienza. Voglio leggervene qualche stralcio:
“Non
ci sono difficoltà nel dialogo, anzi tutti intervengono persino spontaneamente,
anche se in misura diversa. Rispondono sia alle attività indicate sia
proponendo delle loro domande o con commenti relativi alla propria situazione.
Salvatore, che lavora in cucina e ha qualche difficoltà a leggere senza
occhiali – deve fare una visita oculistica -, mi confida questa considerazione:
“Dottore’, parliamoci chiaro, ma a noi lì fuori, chi ci piglia? Nessuno si
fida, ci starebbero sempre addosso… non sarebbe possibile. Ho 44 anni, quando
uscirò avrò quasi 60 anni, che faccio? Queste cooperative, queste associazioni,
ci fanno lavorare, ma il resto niente”.
“A
un certo punto prende la parola spontaneamente Carmela per fare una sua
riflessione riguardo all’argomento che stiamo trattando: dove cercare lavoro,
Centri per l’Impiego, cosa ti aiutano a fare i CPI.. Lei esprime le proprie
perplessità sul fatto che al CPI ti possano trovare lavoro, perché loro uscendo
dal carcere hanno la fedina penale sporca e quindi Carmela dice: “Quando vedono
chi sei, strappano subito la tua domanda. Prendono solo quelle tutte precisine…
Eppure noi siamo donne normali, lo vede Lei che è qui, siamo mamme, abbiamo il
nostro dolore, stiamo pagando, quando tutte usciremo – se Dio ci aiuta – quando
troveremo tutte le porte sbattute in faccia, poi che facciamo? Uno vuole fare
le cose per bene, ci piacerebbe un lavoro tranquillo, non in nero,… ma poi le porte
sbattute in faccia… solo il lavoro in nero… Voi lo dovete dire fuori.”
“Oggi
mi ha colpito la domanda che mi ha fatto uno studente, il quale mi ha chiesto
come li vedo io, come mi sembrano loro, se sono come le altre persone che
stanno fuori e io l’ho rassicurato (parlavo sinceramente) dicendo che alla
stessa domanda che mi fanno quelli che stanno ‘fuori’ rispondo assolutamente di
sì, che si tratta di un normale rapporto insegnante studenti.”
“Voglia
di fare. Per esempio quando devono compilare il proprio curriculum chiedono
molte volte aiuto sia a me che alla tutor, per cercare di compilarlo bene.
Alcuni hanno bisogno di un foglio in più per aggiungere ulteriori esperienze
lavorative, soprattutto Toufik , il quale riempie un foglio con tutti dati esatti,
date e luoghi di lavoro. (Mi viene spontaneo chiedergli: “Ma con tutti questi
lavori, come fai a essere qui?”, risponde “Una rissa finita male”).”
“A
volte gli studenti arrivano con delle tensioni, dovute a qualche fatto inerente
alla vita nel carcere… cerco di tranquillizzare la situazione, senza entrare
troppo nel merito della questione, anche perché non conosco le dinamiche
interne. Però poi quando si comincia la lezione vera e propria diventano più
tranquilli, ho l’impressione come se per un po’ potessero dimenticare la realtà
che vivono. Effettivamente essendo concentrati sull’attività della lezione è
anche possibile che ciò avvenga. Soprattutto abbiamo parlato di chi è più
prossimo all’uscita (qui siamo al circondariale e le pene sono meno lunghe che
al penale, in genere), di cosa faranno e dove andranno. Abbiamo parlato della
delusione di coloro che pensavano di essere scelti per uscire per il tirocinio.
In ogni caso abbiamo anche scherzato. Poi quando è stato il momento di
salutarci, ci siamo chiesti in quale altra occasione ci saremmo potuti rivedere
lì in carcere e comunque ci siamo dati ‘appuntamento’ per rivederci ‘fuori’”.
Ecco,
si tratta di persone consapevoli delle proprie difficoltà, che hanno questo
gigantesco problema: il baratro fra ciò che sta “fuori”, rispetto a loro che
sono “dentro”. Mi chiedo se non sia più saggio, per l’esercizio della
cittadinanza attiva di noi che siamo liberi, fare dei passi verso di loro per accorciare
la misura di questo baratro, in quanto sono persone che potrebbero senz’altro
svolgere un lavoro “fuori”, anzi lo svolgerebbero pure bene, contente di farlo.
Faccio
un salto di 1 anno e arrivo a un’altra mia esperienza con il carcere. Dal 2016
fino al 2018 infatti come insegnante sono stata in forza al Centro Provinciale
Istruzione Adulti di Perugia, il CPIA di Ponte San Giovanni e ho scelto di
lavorare in carcere. Quindi Capanne è stata la mia sede di lavoro in quei 2
anni. Ho insegnato italiano a stranieri.
Ho
osservato ogni giorno di persona il bisogno che hanno di occuparsi di qualcosa.
Quello che cercano è di tenere il fisico impegnato, attivo, in qualcosa da
fare. Se hanno un impegno come aiuto cuoco in cucina, portavivande o spazzino,
lo svolgono precisamente, attenendosi agli orari, così hanno contatti, le giornate
non sono interminabili, ma scandite da una occupazione. Si sentono utili.
In questi anni ho avuto poi occasione di incontrare il
garante dei detenuti della regione Umbria, professor Stefano Anastasia. Una
volta, il 5 giugno 2017, abbiamo partecipato a una tavola rotonda dal titolo: “A
doppio senso. Dinamiche riabilitative, migratorie, carcere” presso la Mediateca
del Museo dell’emigrazione a Gualdo Tadino.
Ascoltando il suo intervento ho capito che più attività si progettano
dentro al carcere, più migliorano le condizioni di vita dei detenuti. Più si
parla di carcere in città, meno lontano diventa. E più sbocchi si danno “fuori”
ai detenuti che hanno appreso un mestiere, più si riduce quel famoso baratro,
in vista della riabilitazione e del recupero.
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