mercoledì 25 febbraio 2009

Referendum elettorale il 14 giugno: un altro esempio di partitocrazia

ItaliaQuattrocento milioni di euro: 112 volte la somma dell`8 per mille distribuita nel 2008 alle organizzazioni di assistenza umanitaria. Ecco quanto costerà, secondo gli economisti de lavoce.info, il rifiuto di inserire il referendum elettorale tra le varie consultazioni (europee, comunali, provinciali...) raggruppate nell`election-day del 6 e 7 giugno. Risultato: ci porteranno a votare molto probabilmente tre domeniche di fila.  (Dal Corriere della Sera del 25 febbraio 2009, articolo di Gian Antonio Stella, Election Day senza referendum: 400 milioni)Obiettivo, neppure tanto segreto: stufare gli elettori e far saltare il quorum. Così da conservare la legge attuale, definita dal suo stesso ideatore «una porcata». Peccato. Peccato perché la scelta del governo di rompere finalmente con l`andazzo che per decenni aveva sparpagliato le elezioni su una infinità di date diverse era stata apprezzata, sull`uno e l`altro fronte degli schieramenti, da tutti coloro che hanno chiari due punti. Il primo: lo Stato, specialmente in questi tempi di vacche magre, deve risparmiare più soldi possibile. Il secondo: lo stillicidio di continue scadenze elettorali ha troppo spesso frenato (a volte fino alla paralisi) chi stava al governo impedendogli di muoversi senza l`ossessione di essere punito al primo esame, volta per volta cavalcato dai vincitori di turno. Erano anni che da più parti si invocava l`election day. E anni che, a seconda delle convenienze del momento, si mettevano di traverso questo o quel partito. Finché Roberto Maroni, qualche tempo fa, aveva spiegato: «Il Consiglio dei ministri ha approvato la mia proposta: si voterà insieme per le Europee, per oltre 4000 Comuni e per 73 Province. Per fare questo abbiamo anticipato al sabato la mezza giornata di votazioni che di solito  è di lunedì, sia per le Amministrative sia per le Europee». Alleluja. Ma il referendum? Ottocentoventimila persone, 320 mila più del necessario, avevano firmato ai banchetti in piazza di Mario Segni e Giovanni Guzzetta per cambiare il «porcellum», la legge elettorale che perfino il leghista Roberto Calderoli, suo promotore, aveva definito «una porcata». E intorno alle tre idee di base (premio di maggioranza alla lista più votata alla Camera, premio di maggioranza alla lista più votata al Senato e divieto delle candidature multiple, che consentivano ai leader eletti in più collegi di optare per l`uno o per l`altro scegliendo di fatto chi fare subentrare e chi no) si erano schierati in tanti. Di destra e di sinistra. Da Arturo Parisi a Gianfranco Fini, da Stefania Prestigiacomo ad Antonio Di Pietro. Vada sé che Mario Segni, già scottato l`anno scorso dal rinvio della consultazione deciso per la caduta del governo Prodi, l`infarto della XV legislatura e le elezioni anticipate, vive la scelta del Viminale con rabbia e sconcerto: «L`election-day il 7 giugno col Referendum sarebbe stato un`ottima cosa, ma l`election day col Referendum una settimana dopo, stretto tra la prima tornata elettorale e il secondo turno delle Amministrative la domenica seguente, è una vera presa per i fondelli».

Che alla Lega non piaccia il Referendum si sa: se passassero i «sì» ai quesiti studiati da Guzzetta il Carroccio rischierebbe di esser preso in mezzo. Calderoli, un mese fa, era stato chiarissimo: «Perché dovremmo accettare un sistema che forza tutti ad entrare in due soli listoni? Berlusconi ha già difficoltà a fare il Pdl, figuriamoci se ci obbliga a entrare in un unico cartello elettorale». Quindi, patti chiari amicizia lunga: «Se qualcuno dei nostri alleati volesse sostenere quei quesiti sappia che qualcuno nella maggioranza potrebbe anche votare contro il governo». L`obiezione formale è nota: un referendum mischiato in mezzo ad elezioni europee, comunali e provinciali rischia di «confondere» gli elettori. Risposta dei referendari: ma non è forse la destra ad additare ogni giorno a modello gli Stati Uniti d`America? Bene: in trentasei degli States, in contemporanea con le ultime presidenziali che hanno visto il trionfo di Barack Obama, gli americani hanno votato su 153 referendum. Dal matrimonio gay (in California) all`assimilazione dell`aborto all`omicidio (Colorado), dall`abrogazione del diritto all`interruzione anticipata della gravidanza (South Dakota) all`uso medico della marijuana  (Michigan) fino, nello stato di Washington, al suicidio assistito. Lo stesso Roberto Maroni del resto, quando stava all`opposizione, la pensava in maniera diversa. Basti tornare all`aprile del 2001, otto anni fa, quando l`allora premier Giuliano Amato rifiutò di abbinare le elezioni in arrivo il 13 maggio, che avrebbero visto il trionfo del Cavaliere e della sua coalizione, con il referendum sulla famosa devolution lombarda indetto da Roberto Formigoni e caro alla Lega. «Una vendetta meschina», sibilò Ignazio La Russa. «Si voterà anche a costo di sistemare dei seggi in piazza», tuonò il futuro ministro dell`Interno, «se si inventasse un rinvio illegittimo per decreto, la Regione Lombardia è pronta ad installare altri seggi e altri scrutatori per i referendum regionali, vicini a quelli delle elezioni». Altri tempi, altri interessi. Formalmente legittimi, per carità. Purché sia chiaro: collocare il referendum elettorale nella domenica in mezzo tra le Europee e i ballottaggi delle Amministrative per puntare al fallimento del quorum costerà appunto agli italiani, stando ai calcoli di lavoce.info, circa 20o milioni di euro in più di spese dirette («quanto fin qui impegnato per la social card») più altri Zoo di oneri indiretti. Totale: 400 milioni. Ottanta in più di quei 322 dati nel 2008 dall`Italia, il più tirchio dei Paesi occidentali, in aiuti al Terzo Mondo

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