sabato 10 settembre 2011

Riflessioni sulla marcia Perugia-Assisi,di Francesco Pullia

La marcia della pace Perugia-Assisi è alle porte. Il 25 settembre si avvicina. Quest’anno, a differenza delle passate edizioni, ci sono alcuni elementi che non possono assolutamente essere sottaciuti. Innanzitutto ricorrono esattamente cinquant’anni da quel fatidico 24 settembre 1961 in cui Aldo Capitini, sfidando il duplice conservatorismo, quello dei “realisti” e dei clericofascisti da un lato e quello di una sinistra egemonizzata dal Pci e dalle colombe picassiane uscite dal nido staliniano, riuscì a coronare il suo sogno di appassionato persuaso e indomito propugnatore della nonviolenza. Quella straordinaria iniziativa, tutt’altro che genericista e blandamente pacifista, ribadiva la necessità di un «controllo dal basso da parte di tutti» e di una visione della nonviolenza come lotta dura e impegno diuturno alla costruzione di una società aperta.Nel mezzo secolo che ci separa dal 1961 si sono verificati mutamenti radicali in quel tempo inimmaginabili. Il clima di tensione tra i due blocchi di allora, il sovietico e l’americano, con il paventato rischio di una guerra atomica, ha assunto altre forme. Il muro di Berlino è stato abbattuto, sostituito, però, da altri forse meno visibili e solidi ma non meno pericolosi. Una superpotenza come la Cina si è prepotentemente affermata nello scenario mondiale, con il suo peso ricattatorio e il suo carico di sangue. Gli Stati Uniti, dal canto loro, sembrano orientati, con Obama, verso una politica estera non muscolare ma non ancora perfettamente decifrabile. Il Medio Oriente è in fermento e in una fase transitoria dagli scenari incerti. L’Europa, dal canto suo, ben lungi dall’incarnare un ideale federalista di matrice spinelliana ed ernestorossiana, si è rivelata un ectoplasma sempre più evanescente, pericolosamente avvolta, com’è, in un economicismo fine a se stesso e con un debole, se non risibile, ruolo nel contesto internazionale. Generatrice e, al tempo stesso, ostaggio di euroburocrazie e particolarismi nazionali, è incapace di esercitare nel Mediterraneo (aiutando, ad esempio, i paesi in rivolta alla transizione verso la democrazia) quella funzione che, invece, le spetterebbe. I continenti sono (s)travolti da flussi migratori scaturiti da dissesti ambientali in certi casi irreversibili e da una crisi dalle molteplici facce. Sciovinismi e razzismi si sono riaffacciati, raccogliendo, purtroppo, un seguito sempre maggiore e facendo leva su timori artatamente fomentati che attecchiscono facilmente in una situazione generale di disorientamento. Insomma, il fatto che non ci sia più la guerra fredda non significa affatto che non sussistano seri motivi di preoccupazione. Anzi, e non è un paradosso, ce ne sono più di prima.

Oggi più che mai, anche a partire dalla considerazione dei tanti focolai sparsi nel mondo in aggiunta a situazioni conflittuali divenute ormai croniche, è urgente realizzare quell’alternativa strutturale all’ecatombe su cui hanno messo l’accento sia il manifesto-appello dalla sinagoga di Firenze che il satyagraha lanciato da Marco Pannella quattro anni fa come prosecuzione dell’impegno radicale contro lo sterminio per fame e per sete degli anni Ottanta.

Le motivazioni, quindi, per imporre, con iniziative appropriate, la nonviolenza come unico e inderogabile strumento adeguato di lotta politica, come mezzo cui rivolgersi nell’attuazione del nuovo possibile e configurabile, ci sono e la marcia della pace Perugia-Assisi è chiamata a farsene latrice. Quest’anno, poi, ci sarà la concomitanza di un altro appuntamento. È stata, infatti, indetta a Perugia per il 25 settembre una manifestazione nazionale contro la caccia appositamente. È stata promossa da AIDAA, Animalisti Italiani, Vittime della caccia, Enpa, Italia Nostra, Lega abolizione della caccia, Lav-Lega Antivivisezione, Lega italiana protezione uccelli, No alla caccia, Organizzazione internazionale protezione animali, Verdi ambiente società, Italia meravigliosa. È una bella occasione per far sì che finalmente si porti l’attenzione su un aspetto centrale della prospettiva nonviolenta capitiniana, e cioè sull’antispecismo, sull’animalismo inteso come riscatto delle altre specie viventi dalla violenza perpetrata dall’uomo. Si tratta di un aspetto di Capitini su cui c’è stata incomprensibile reticenza, come fosse importante o secondario rispetto a “questioni più strettamente politiche”, da parte dello stesso Movimento Nonviolento (fondato da Capitini e Pietro Pinna nel 1961 e, insieme ad altre sigle,come gli Enti locali per la pace, tra gli organizzatori della marcia). Non si può pienamente comprendere, come ci sforziamo da tempo di rimarcare, il significato della proposta politica capitiniana se non si tiene conto della centralità rivestita da questo tema che, a sua volta, è strettamente legato alla scelta vegetariana decisa dal filosofo nel 1932, scelta che gli costò la perdita del posto di segretario della Normale di Pisa.

«Gentile», scrisse Capitini nel 1966, in “Antifascismo tra i giovani” , ricordando il suo licenziamento, «era impaziente che io sistemassi le mie cose e me ne andassi perché ero divenuto di colpo vegetariano (per la convinzione che esitando davanti all’uccisione degli animali, gli italiani -che Mussolini stava portando alla guerra- esitassero ancor più davanti all’uccisione di esseri umani), e a lui infastidiva che io, mangiando a tavola con gli studenti come continuavo a fare, fossi di scandalo con la mia novità!».

Venendo, dunque, a questa edizione della marcia ci si chiede cosa sia meglio (non in termini di opportunità, ma di pertinenza) fare, se cioè si debba aderire e marciare oppure no.

Ci siamo poc’anzi soffermati sull’urgenza di porre la nonviolenza al centro dell’azione politica, la nonviolenza come satyagraha, cioè forza della verità, e, quindi, come affermazione di diritto e legalità. Ed eccoci arrivati al punto: a parte le critiche da noi già avanzate negli anni scorsi, e che rimangono tutte, riguardanti la gestione dell’iniziativa (verticismo, burocraticismo, unilateralismo, indebita fagocitazione partitocratrica da parte della sinistra di regime in Umbria), non si può non restare fortemente perplessi sul fatto che la marcia sia schiacciata, senza alcuna evoluzione, su un pacifismo genericistico (e di comodo) che, nel corso della storia, si è rivelato pericolosamente alleato, suo malgrado, degli interessi dei peggiori guerrafondai nonché di totalitarismi. In altri termini, se si vuole essere rigorosamente fedeli ad un’impostazione gandhiana e capitiniana, si comprende che pacifismo e nonviolenza non sono affatto sinonimi e che, anzi, il primo è storicamente antitetico alla seconda, se non altro perché si è dimostrato sempre strenuamente difensore del mantenimento di assetti anche quando questi necessitavano di essere profondamente mutati. Il pacifismo, detto diversamente, è rinunciatario e gioca calcisticamente di rimessa. La nonviolenza, al contrario, anticipa, prefigura e, di conseguenza, attacca, è azione incessante nella costruzione del nuovo. Ora, se andiamo analizzando gli argomenti portanti della Perugia-Assisi (detta così, ce ne rendiamo conto, sembra una tappa di una gara ciclistica) vi troviamo un calderone da cui, però, ad essere elusa resta proprio la nonviolenza. Ancora più chiaramente, se fossimo stati chiamati a dare una direzione alla ( e di) marcia, l’avremmo intitolata “satyagraha, dall’esistente alla nuova realtà, dall’alternativa all’affermazione” e l’avremmo incentrata sulla nonviolenza come risorsa praticabile nella realizzazione della società aperta. Vi sarebbe rientrata, tra l’altro, la stessa battaglia sulle carceri e sull’amnistia (non soltanto nel nostro Paese, ma a partire da questo) all’interno di un discorso sull’estensione del diritto, come elemento di vita individuale e sociale, in un’ottica non più specista. Si tratta di un’impostazione che, ne siamo certi, avrebbe appassionato Capitini ma che, purtroppo, non ci è parsa, ancora una volta, di ravvisare.

Quanto detto, non deve, però, indurci al rischio del settarismo. Anche se la marcia appare quanto mai bloccata e irrigidita, non è, infatti, tutto perso. È vero che ormai è ridotta ad un’operazione di ordinaria amministrazione, gestita negli e dagli uffici di enti locali, più che di coinvolgimento, partecipazione e responsabilizzazione individuale. D’altronde, è anche vero che la ricorrenza del cinquantenario della prima edizione non può essere considerata come casuale e passare, pertanto, sottogamba. Riteniamo, quindi, che una nostra presenza, tutt’altro che marginale, debba essere in qualche modo attentamente valutata, per fornire quelle «aggiunte» che tanto stavano a cuore a Capitini e senza di cui la nonviolenza langue e svanisce nell’aridità del pacifismo.

 

 

 



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