“Io non lotto per la mia legalità, ma perché sia rispettata la legge
che si sono dati coloro che per primi la violano”. Questa frase può,
da sola, riassumere emblematicamente la lunghissima vicenda politica
di Marco Pannella.
La si legge nell’intensa, partecipata, biografia (“Marco Pannella,
biografia di un irregolare”, Rubbettino, € 18,00) dedicata
all’esponente radicale da Valter Vecellio, giornalista Rai e direttore
responsabile del giornale telematico “Notizie radicali”, che sarà
presentata venerdì alle 16,30 nella sala del consiglio provinciale di
Terni nel corso di un incontro-dibattito cui parteciperanno il sen.
Mauro Agostini (PD), il giornalista Mino Lorusso, il vicedirettore
dell’Istituto Gramsci, nonché già parlamentare, Alberto Provantini.
Grazie a un meticoloso lavoro di ricerca, Vecellio ci offre non
soltanto il ritratto a tutto tondo di un uomo la cui vita s’identifica
con la passione per la verità e la tenace lotta nonviolenta per
l’affermazione, sempre e ovunque, della speranza liberale, ma anche e
soprattutto un ampio e approfondito spaccato di storia, anzi di
storie.
Sì, perché ripercorrendo l’azione politica di Pannella storie diverse
e parallele finiscono per intrecciarsi ed essere messe a fuoco, storie
riconducibili alla contrapposizione tra umanitarismo democratico e
liberale, da un lato, e concezione totalitaria della società,
dall’altro.
Non è un caso che l’ostilità più netta nei confronti di Pannella e di
quanto, in quasi un settantennio d’ininterrotta e intransigente lotta
politica, il leader radicale ha saputo esprimere e conquistare (per
tutti, senza distinzione alcuna) siano stati i comunisti e, in genere,
il conservatorismo non riformatore, anzi antiriformatore,
massimalista.
Ed ecco, quindi, Pannella ricordare a Palmiro Togliatti nel 1959 che
“poche lotte si sono combattute più aspre e continue di quelle che
hanno opposto democratici e comunisti”, denunciare nel 1966 che
“bisogna sfatare il mito di un’opposizione totale del Pci al sistema,
per analizzare invece anche la storia di compromissioni”, recarsi in
pieno ’68, con un manipolo di radicali, nelle piazze dei paesi
dell’Est per essere prima arrestato e poi espulso, o, ancora, porre
nel 1979 in pieno congresso del Pci, con chiaro riferimento
all’episodio di via Rasella, la questione della centralità della
nonviolenza come prassi politica.
“Da una vita”, dice Pannella, “inseguo i comunisti per assorbirli,
megalomane come sono, nella rivoluzione liberale”. Per tutta risposta
ha ricevuto invettive, contumelie, incomprensioni, addirittura qualche
ceffone, come quello nel maggio del 1976 sotto la storica sede
comunista di via delle Botteghe Oscure, fino al recente veto posto
alla sua candidatura al parlamento italiano e in quello europeo. Vale
la pena ricordare che, sotto l’ultimo governo Prodi, gli fu
ingiustamente negato un seggio in Senato che, invece, come anche
eminenti costituzionalisti hanno confermato, gli sarebbe spettato.
Ostracizzato in patria, altamente considerato all’estero per
l’instancabile impegno transnazionale a favore dei diritti umani,
Pannella ha destato l’interesse e ricevuto la stima di uomini di
cultura, di scienza, di esponenti religiosi come il Dalai Lama.
Ma chi è, in realtà, quest’uomo che ad ottant’anni ha fatto ricorso
allo sciopero della fame e della sete per scongiurare che il cappio
del boia si stringesse al collo di Tarek Aziz? Un copernicano, come
sosteneva Elio Vittorini, in un mondo di tolemaici? Un Proteo
multiforme, secondo la definizione di Gianni Baget Bozzo, che ha
tentato di costituire una alternativa religiosa laica alla cultura
cattolica del popolo italiano? Un esigente che, come ha affermato Enzo
Bianchi, priore di Bose, pone con lealtà domande che interpellano il
dettato evangelico?
Il libro di Vecellio, senza cadere nell’apologetica e senza enfasi, ce
lo spiega molto bene: un innamorato del diritto o, se si vuole, un
persuaso, per ricorrere a un termine di Michelstaedter molto amato e
reso proprio da Aldo Capitini, che si è sempre, in ogni modo, sforzato
di indicare una via d’uscita “al disastro che incombe e che viviamo”,
un lungimirante che al machiavellismo d’accatto ha contrapposto la
ferma convinzione che i mezzi prefigurano e qualificano il fine, uno
che, come scrisse Piero Calabrese, “ci ha insegnato ad essere liberi,
a diventare migliori, a farci testimoni del nostro tempo”. Forse è per
questo che, in uno scenario degradato e degradante come il nostro, si
erge in luminosa solitudine.
Quella di Pannella, come giustamente scrive Vecellio,“non è una vita,
è una saga, per raccontarla non basterebbero i volumi
dell’enciclopedia Treccani”. Pannella fa paura. Per questo è stato
messo al bando dalla partitocrazia di ieri come da quella di oggi. Fa
paura perché lucidamente e con perseveranza indica una via d’uscita
dalla barbarie che quotidianamente ci attraversa e offende. La sua è
la via di un umanesimo altro o, per meglio dire, di un transumanesimo
fondato non tanto su un generico rispetto dell’altro quanto sulla
valorizzazione capitiniana dell’essere compresenti. Rispetto ai
machiavellismi d’accatto, c’insegna che è possibile restituire nobiltà
alla politica perché “non è vero che il fine giustifica i mezzi.
Piuttosto è vero il contrario: i mezzi prefigurano e qualificano il
fine e la durata è la forma delle cose”.
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