giovedì 13 gennaio 2011

Perché non si può capire Capitini al di fuori del suo vegetarianesimo, contributo di Francesco Pullia

La ricorrenza del cinquantenario della storica marcia Perugia-Assisi
(24 settembre 1961) promossa da Aldo Capitini (1899 – 1968)
costituisce un’occasione importante per rilanciare la figura e il
pensiero del filosofo cui, più e meglio di altri, si deve in Occidente
un’elaborazione originale e articolata della nonviolenza. La sua
unicità sta non tanto e non solo nell’avere espresso una concezione
nettamente antitetica all’idealismo hegeliano e ai suoi cascami
(storicismo in primis), dimostrandone le inadeguatezze, ma nell’avere
prospettato una via d’uscita radicale dall’antropocentrismo.Di qui la sua singolarità e la sua significativa valenza
anticipatrice. Di qui, anche, la sostanziale differenza tra la sua
concezione di apertura, riscontrabile mirabilmente nella centralità in
lui rivestita dalla compresenza e dalla omnicrazia, cioè dalla
creazione continua di realtà cui sono chiamati coralmente a concorrere
tutti gli esseri senzienti (tutti, nessuno escluso) tramite la
rivalutazione e la corresponsabilizzazione persino dei morti, degli
assenti, e quella formulata da Popper, ancora racchiusa e vincolata
all’interno di un umanesimo (antropocentrico) di fondo.
Non comprendere questo aspetto o giudicarlo ininfluente, come è stato
fatto anche recentemente, significa volere sminuire la portata di una
riflessione la cui ricchezza è straordinaria e portatrice di ulteriori
sviluppi. Ritenere, in questo senso, marginale la scelta vegetariana
di Capitini, compiuta, si badi bene, in pieno regime fascista e non
certo per questioni gastronomiche, significa accreditare un’accezione
gravemente limitata e limitante.
Non si possono capire pienamente la nonviolenza e il liberalsocialismo
(apparentemente similare e, invece, di ben altro spessore del
socialismo liberale di Carlo Rosselli) in e di Capitini se non si ha
consapevolezza del loro legame strettissimo, indissolubile, con il
vegetarianesimo.
Infatti, a differenza di quanto superficialmente sostenuto da qualche
studioso, la scelta vegetariana capitiniana (debitrice, in parte,
all’acquisizione e alla maturazione della visione gandhiana ma
soprattutto alla riflessione di Piero Martinetti) non è dovuta
all’assunzione di un atteggiamento bizzarro e/o esibizionistico, ma
all’affermazione, in modo reciso e propositivo di un principio di
discontinuità rispetto all’arrogante antropocentrismo di cui il
totalitarismo è manifesta conseguenza. Non a caso Capitini
all’Uno-Tutto sostituì l’Uno-Tutti e non per mera decisione
nominalistica di secondaria rilevanza ma perché, rompendo con
l’antropocentrismo (aristotelico-tomista-
cartesiano), con quello che
anni più tardi, con efficace neologismo, Derrida avrebbe definito
carnofallologocentrismo, anticipò la critica, che poi si ritroverà da
Adorno in avanti, ad una centralità che nascondeva in sé il germe del
dominio, della prevaricazione di una specie sull’altra e di una specie
al suo interno, della verticalizzazione accentratrice del potere.
Un conto, infatti, è sostituire un potere con un altro potere,
annullando le varie e differenti individualità in una totalità
assommante e annichilente, un altro è, invece, chiamare ognuno, nel
segno di un’estesa responsabilizzazione, a partecipare attivamente ad
un ruolo decisionale (si leggano in tal senso i Centri di orientamento
sociale da lui caldeggiati).
Senza un salto radicale, decisivo, e cioè senza la rottura
dell’antropocentrismo come pratica esistenziale (ed ecco, quindi,
l’imprescindibile significato del vegetarianesimo), la rivoluzione
aperta propugnata da Capitini perderebbe di efficacia e forza
comunicativa. Senza la piena comprensione di questa scelta non si
possono neanche lontanamente percepire la differenza e la peculiarità
dell’antifascismo nonviolento, ripetiamo nonviolento, capitiniano, la
sua alterità rispetto alla soluzione armata, militaristica, comunista.
L’antifascismo capitiniano non può essere inteso come semplice
opposizione a un regime perché, al contrario, è contrapposizione
costruttiva, affermazione di compresenza, anticipazione, vissuta,
esperita nella dimensione esistenziale, di quella società aperta che,
per essere realizzata, richiede impegno diuturno, aggiunta dopo
aggiunta. L’antifascismo capitiniano nasce dalla consapevolezza che il
fine è prefigurato dal mezzo. Il mezzo non è uno strumento cui far
ricorso all’occorrenza, né può essere giustificato dal fine. Il mezzo
è anticipazione del fine.
“Il vegetarianesimo”, afferma Capitini in “Aspetti dell’educazione
alla nonviolenza”( Pacini Mariotti, 1959), “è in stretto rapporto con
i problemi morali e religiosi, ed anzitutto con il problema dei fini e
dei mezzi”. E questo perché dà il suo contributo alla trasformazione
radicale della società.
“Si sa”, nota Capitini, “che molti hanno parlato del dolore degli
animali. Il filosofo Malebranche osservò nella “Recherche de la
vérité” (cfr. P. Martinetti, Saggi e discorsi, pag. 213) che gli
animali non possono sentire, e quindi non soffrono il dolore,
altrimenti questo sarebbe in contradizione con un Dio infinitamente
potente e giusto. Ma come si può dire che gli animali non sentono il
dolore? E come si risolve l'angoscioso problema? Soltanto con
l'iniziativa, assumendo il proposito di non dare noi il dolore, di non
dare noi la morte. Chi sa che la realtà non dia il dolore e la morte
proprio perché noi diamo il dolore e la morte? Dobbiamo cambiare noi
profondamente; la realtà forse ci seguirà, si trasformerà: ora, con la
nostra cattiva condotta non abbiamo nessun diritto di farle
rimproveri. Si potrebbe porre il problema se gli animali abbiano
diritti, abbiano, doveri, come è di ogni vita morale. Noi abbiamo già
visto che il problema del rapporto tra gli uomini e gli animali è in
sviluppo, e una tappa è certamente il vegetarianesimo. Alcuni diritti
di molti codici sono stati riconosciuti agli animali, per es. di non
essere tormentati che in certe condizioni. Lo sviluppo continuerà”.
Se voglio edificare una società nonviolenta, omnicratica,
antispecista, non posso realizzare tale scopo accettando, innanzitutto
in me, l’inamovibilità della violenza, l’uccisione dell’altro.
Capitini scuote e recide quel principio di inerzia che, come ha
correttamente ravvisato Theodor W. Adorno, sta alla base del male, e
cioè l’adeguamento al mondo così come è, il dare per scontato che,
essendo le cose andate sempre così, si debba continuare a insistere
per questa strada.
“Quando incontro una persona, e anche un semplice animale”, si legge
in “Religione aperta” (Guanda, 1955), “ non posso ammettere che poi
quell'essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o
poi, come una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma
io non accetto. E se guardo meglio, trovo anche altre ragioni per non
accettare la realtà così com'è ora, perché non posso approvare che la
bestia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la
forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà fatta così non
merita di durare. E’ una realtà provvisoria, insufficiente, ed io mi
apro ad una sua trasformazione profonda, ad una sua liberazione dal
male nelle forme del peccato, dei dolore, della morte”.
Alla luce di quanto affermato e testimoniato da Capitini, la
constatazione di Franco Bozzi, che pure fu a fianco del filosofo
perugino nell’organizzazione della prima marcia della pace
Perugia-Assisi, secondo cui “da quando l’uomo è comparso sulla terra
si è rivestito di pelli e si è cibato di carni” e “non è in nostro
potere mutare gli istinti animali” (F. Bozzi, “Il messaggio
capitiniano e le nuove generazioni”, in “Diomede”, numero 16, 2010, p.
146) e, pertanto, il vegetarianesimo capitiniano sarebbe un’assurda
incongruenza, un episodio marginale, evidenzia gravissimi limiti
interpretativi e finisce per fornire un’accezione monca, ridotta e
riduttiva di un pensiero dalla feconda complessità. Non è un caso che
lo stesso Bozzi, studioso di matrice socialista, confonda nonviolenza
con resistenza passiva. Di passivo nella nonviolenza non c’è proprio
nulla, a partire dalla grafia del termine su cui Capitini insistette
non poco: “se si scrive in una sola parola si prepara
l'interpretazione della nonviolenza come di qualche cosa di organico
e, dunque, come di positivo” (“Le tecniche della nonviolenza”,
Feltrinelli, 1966). E, ancora: “la nonviolenza è intimamente attività
positiva, e non negazione, come il termine potrebbe suggerire”
(“Aspetti dell’educazione alla nonviolenza”) perché “è affidata al
continuo impegno pratico, alla creatività, al fare qualche cosa, se
non si può far tutto, purché ogni giorno si faccia qualche passo in
avanti” (“Le tecniche della nonviolenza”).
D’altronde se si dà per accettata, e quindi per valida, la realtà dei
mattatoi, delle Dachau e Auschwitz degli allevamenti intensivi,
dell’industria delle pellicce, della vivisezione e della
sperimentazione scientifica e per scopi cosmetici, con tutto ciò che
ne deriva non soltanto in termini di sangue, strage, orrore ma di
catastrofico impatto sull’ecosistema (ecocidio), è chiaro che in
partenza ci si preclude la comprensione della filosofia capitiniana
non riuscendo ad intuirne il suo carattere innovativo.
A meno che, come Pietro Nenni, non si voglia considerare Capitini come
un estroso sognatore avallandone, di fatto, la sua rimozione, il suo
accantonamento. Con buona pace del conservatorismo “progressista”, dei
rivoluzionari “in carriera” e “di professione”, del burocratismo che
continua ad ammorbare la sinistra nelle sue declinazioni.

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